Prodi, esordio mimetico di Filippo Ceccarelli

Prodi/ esordio mimetico Prodi/ esordio mimetico «Entrata trionfale? Meglio, il silenzio» IL DEBUTTO DEL PREM9ER AROMA Montecitorio non si arriva in bicicletta... Ieri, oltretutto, pioveva. Ma più in generale è a Roma, come ha raccontato Romano Prodi, che «non si può andare in bicicletta». A questo proposito, il futuro presidente del Consiglio ricorda spesso quel che accadde all'anziano e illustre avvocato Tumedei, presidente della Bastogi, che si ostinava a pedalare per la capitale, sempre elegantissimo. Bene, una volta, a un semaforo, Tumedei venne affiancato da un garzone di fornaio. Il quale, dopo essersi rimirato il vegliardo su due ruote, gli si rivolse con allegra ma complice ferocia: «A' nonno, svejete, che te sfruttano*.))... E così, a Montecitorio, si arriva a piedi o con l'autista. Prodi non ha fatto eccezione. Una volta dentro, ha cercato di fare meno confusione possibile, sgattaiolando nella penombra dei corridoi, con il suo abituccio grigio (o blu). Pareva radiosamente timido, o timidamente radioso, sebbene intenzionato a tenere un profilo di alta normalità. E allora? «Sono di buon umore - ha risposto con un bel sorriso - e non l'ho perso entrando qui». Ora, non per starla a fare troppo lunga, ma forse la seconda parte della «dichiarazione», quella specie di accenno psico-geografico, si può leggere come uno spunto rivelatore. Cioè: Prodi non ha perso il buon umore, anche se sa benissimo che qui, in questo Palazzo, lo aspettano con la stessa strafottente diffidenza con cui il cascherino guardava all'avvocato Tumedei, il vecchietto ciclista. E' la forza, tutta romana, dei luoghi e delle abitudini che a Montecitorio trova ineguagliabili livelli di virtuosità. E di efficacissimo contagio, come si comprese fin dal 1976, quando dopo appena due settimane si potevano vedere i più forsennati deputati ex extraparlamentari chiedere i biglietti della partita a Evangelisti. Perché le mura e il popolo di qui hanno lentamente devirilizzato il craxismo, sono riusciti a spargere ridicolo sui leghisti (fino a quando proprio una di loro non s'è presa in carico la liturgia), quindi avvolgendo il Berlusconi barzellettiere in una paralizzante rete di frustrazioni. Bene, tutto questo Prodi dà l'idea di saperlo benissimo. Meglio senz'altro della città politica, conosce la Roma intorno a via Veneto, la Roma sudamericana delle Partecipazioni Statali, che pure lei non scherza per niente. E' lì, comunque che quest'uomo della provincia profonda deve avere imparato a tenersi basso e coperto, a non far scena, e intanto a diffonde re intorno a sé quella felice mode razione o moderata felicità che co- E munque ha tutta l'aria di funzionare come una strategia mimetica. Così, anche ieri pomeriggio, rientrato alla Camera non senza uno sguardo alla colorita protesta degli allevatori (fra cui spiccava il cartello: «Prodi e Veltroni non toccate i vitelloni»), Prodi ha dribbla¬ to con grazia i giornalisti, con meno grazia un paio di abili postulanti, e s'è reinfilato nell'aula, nel centrosinistra alto dell'emiciclo. Qui, osservato in amabile colloquio con mia mezza dozzina di deputati dell'Ulivo, dava l'idea di essere un capo molto più fratello maggiore di quanto l'iper-personalizzato rodeo elettorale abbia lasciato credere. Nulla di paragonabile all'energica solitudine di Craxi. Ma neanche con il magnetismo di Bossi, la tecnica freddezza di Ciampi, Amato o Dini, o il megapotere calorico e artificiale di Ber¬ lusconi. Prodi sembra piuttosto un leader ad alto contenuto di silenzio e d'intermittenza, nel senso che sa ascoltare, parla quando ritiene arrivato il suo turno, e allora prova pure a rendersi gradevole, anche con una discreta mimica. Ieri si stirava e si stravaccava con la massima naturalezza. Ma soprattutto non riusciva a incutere soggezione. Quando il «suo» deputato Franco Monaco, per dire, doveva votare, l'ha praticamente spostato. Con il Cinghialone o il Cavaliere sarebbe stato inconcepibile. E tuttavia, sempre osservato dalla tribuna, pure il potere di Prodi conserva una sua corporeità. Senza necessariamente caricaturizzare il prossimo premier, anzi rifacendosi a certi moduli fisici e comportamentali ricorrenti nel vecchio costume de, l'uomo tocca, si tocca, struscia, stringe la mano e con l'altra rafforza la stretta, abbraccia, dà vigorose pacche sulle spalle: anche alle donne. Arrivato il suo turno, ha sceso le scale nell'indifferenza, ha affibbiato uno schiaffetto all'onorevole Visco e, per evitare la verde Procacci, stava per andare a sbattere sul catafalco. Ma si è ripreso subito. Quindi, divincolatosi dalla stretta di Gigino Turchi, un ex deputato del msi a cui Andreotti aveva felicemente (per lui) affidato la rappresentanza dell'Italia nelle fiere internazionali, Prodi ha abbandonato Montecitorio. Dietro di sé ha lasciato fermentare la voce che si porterà appresso, anche lui, un Letta: Enrico, stavolta, giovane direttore dell'Arel e studioso di politica internazionale. E anche nipote di Gianni, il berlusconiano. Un Letta, si dirà, ci vuole a Palazzo Chigi. Roma, d'altra parte, è sempre Roma. Filippo Ceccarelli Ma la capitale che ha «devirilizzato» il craxismo lo aspetta al varco Ieri è riuscito a dribblare i giornalisti e i postulanti La prima giornata di Romano Prodi a Montecitorio

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