DUCCI, LA CARRIERA DELL'INTELLIGENZA di Arrigo Levi

DUCCI, LA CARRIERA DELL'INTELLIGENZA DUCCI, LA CARRIERA DELL'INTELLIGENZA LA BELLA GIOVENTÙ' Roberto Ducei introduzione di Arrigo Levi // Mulino pp. 212. L.20.000 mi nella recente tornata elettorale, ospiti di Bruno Vespa oppure di Lucia Annunziata, credo superino a stento la ventina. Guardando la televisione ci si rende conto che coloro che conducono il gioco politico sono poche persone onnipresenti: fanno i programmi, discutono, litigano, quindi si presentano alle elezioni per ottenere la legittimazione a governare. Non è un caso che Berlusconi si sia trasformato da imprenditore privato in leader politico attraverso il possesso di tre televisioni nazionali che hanno assicurato la sua continua sopporto sentir dire: non si fa più politica, bisogna tornare alla politica. Forse che non si faceva più jx)litica quando c'era il Caf? Bisogna soltanto distinguere la buona jìolitica dalla coltiva politica presenza sul video». C'è il rischio che il ceto politico operi principalmente per il proprio interesse? «Tutto dipende, naturalmente, dalle persone che ne fanno parte. Ma non dimentichiamo che la politica nel senso normale della parola è una lotta per il potere nella società. Soltanto se distingui la buona politica dalla cattiva politica puoi distinguere tra la lotta per il potere e per così dire - il bene comune e la felicità dei sudditi. Tre sono i poteri fondamentali nella società: economico, ideologico e politico. Ma quello politico è il potere dei poteri». Lo sguardo dello scienziato della politica è dunque inevitabilmente scettico? «Una cosa che non sopporto è sentir dire: non si fa più politica, bisogna tornare alla politica. Se s'intende per politica lotta per il potere, in ogni società la politica c'è sempre. Forse che non si faceva più politica quando c'era il Caf? Non erano Craxi, Andreotti e Forlani dei bravi professionisti della politica, impegnati in una normale lotta per il potere? C'era una politica che poteva non piacerci. Ma nel senso comune della parola, che non implica un giudizio di valore, anche quella era politica». Alberto Papuzzi LA BELLA GIOVENTÙ' Roberto Ducei introduzione di Arrigo Levi // Mulino pp. 212. L.20.000 RA straordinariamente intelligente e ne era sfacciatamente consapevole. Se di Carlo Sforza si diceva che portava la sua testa come un ostensorio, di Roberto Ducei, diplomatico e scrittore, si potrebbe affermare che vestiva la propria intelligenza come ima pelliccia d'ermellino e la confrontava senza esitare al modesto fustagno con cui erano confezionati gli abiti della maggior parte dei suoi colleghi. Non ricordo un'altra persona che fosse contemporaneamente altrettanto brillante, colta, acuta, sarcastica, e pronta a lasciare sulla faccia dell'avversario le scudisciate della sua intelligenza. Capì abbastanza rapidamente che l'ostentazione della superiorità intellettuale gli avrebbe procurato nemici e sgambetti. Nell'autobiografia interrotta dalla morte, apparsa in questi giorni presso il Mulino, scrisse: <(Agli esami orali (del concorso diplomatico) superai agevolmente lo sbarramento dei successivi interrogatori, simile a un cavallino che salta dieci centimetri al di sopra di ogni ostacolo. Fu solo dopo qualche anno di carriera che capii quanto sia pericoloso riuscire 0 primo e tirare senza alcuno schermo la corsa degli altri: si ha la schiena esposta a tutte le pugnalate». Ma questo non gli impedì di continuare ad essere sferzante. Ricordo ancora uno stupido insulto, graffitato sul ponte del Foro Italico negli anni in cui era direttore generale degli Affari Politici e il ministero degli Esteri era afflitto da un attacco febbrile d'infantilismo popidista. Suppongo che non gli dispiacesse. Quelle parole volgari, che Ducei leggeva ogni mattina sulla strada della Farnesina, gli confermavano indirettamente quale distanza corresse fra lui e gli altri. Nacque, come dicono gli inglesi, con un cucchiaio d'argento in bocca. Ebbe tutto ciò che un uomo può desiderare: un padre famoso e intelligente, una madre bella e amorevole, amicizie nobili e influenti, buone scuole, viaggi educativi, eccellenti letture, per non parlare di un bel viso, angoloso e romantico, che suscitava la curiosità e le passione femminUe. Giovanissima matricola alla facolto di giurisprudenza dell'Uni¬ versità di Roma aveva di fronte a sé soltanto l'imbarazzo della scelta. Avrebbe potuto essere, con altrettanta naturalezza, poeta, romanziere, drammaturgo, storico, giornalista, soldato, diplomatico. Firn per fare tutto, contemporaneamente. Frequentò gli ambienti letterari romani, si cimentò in un romanzo «alla Moravia», scrisse per le riviste di Longanesi, Benedetti e Pannunzio, compose versi e tragedie, partecipò alla redazione di un settimanale frondista («Il Cantiere»), pubblicò un libro sul giovane Napoleone, partì volontario per l'Etiopia, scavalcò come un «cavallino» gli ostacoli del concorso diplomatico. La morte ha interrotto i ricordi di Roberto Ducei nel momento in cui s'imbarcava sul Rex per raggiungere il suo primo posto consolare in Canada. Aveva soltanto venticinque anni, ma portava con sé uno straordinario bagaglio di esperienze umane e intellettuali. La scelta del giovane Napoleone per 0 suo primo saggio non fu casuale. Anche Ducei cercava inquietamente la strada della grandezza. Ho sempre sospettato che questo uomo, così straordinariamente dotato dalla natura e dalla sorte, sia stato per buona parte della sua vita profondamente infelice. La chiave è in questa breve autobiografia. Per formazione culturale ed educazione familiare il giovane Ducei fu nazionalista, elitario, aristocratico. Ma era troppo intelligente per non rendersi conto che l'Italia non avrebbe mai corrisposto alle sue aspettative, che la classe dirigente fascista e l'establishment militare erano prevalentemente mediocri, che gli italiani non erano un popolo di conquistatori, che il valore militare era l'appannaggio di alcuni piccoli corpi, che i regimi, democratici o totalitari, erano governati dalle masse e dai loro tribuni. Dopo qualche iniziale illusione fu tra i primi a comprendere la fragilità del grande sogno nazionale che egli aveva coltivato. Trovò rifugio, dopo la fine della guerra, nella costruzione europea cui dette, soprattutto durante la redazione dei trattati per il Mercato Comune, un notevole contributo personale. Ma il suo vero rifugio fu la «droga» della lucidità. Come accade spesso alle persone molto intelligenti, compensò le proprie delusioni con analisi, non prive di ironia e sarcasmo, che divennero col tempo sempre più spietate. Se gli idoli in cui aveva creduto erano falsi, lui ne avrebbe lucidamente descritto il crollo. Alcune delle più belle pagine del libro sono dedicate al declino della professione diplomatica. L'amarezza per gli ideali perduti si confuse e s'intrecciò con l'amarezza per le delusioni subite dal padre (due volte capo di stato maggiore della marina) e da lui stesso. Visse e morì nella convinzione, in gran parte fondata, che i suoi contemporanei non avessero riconosciuto i suoi meriti o, peggio, avessero diffidato della sua intelligenza. Dopo essersi inconsapevolmente confrontato al giovane Napoleone constatò con amarezza che il brillante generale non era mai diventato «primo console». A noi rimane il rammarico di un grande talento nazionale in parte inutilizzato, e di un bel libro interrotto dalla morte. Sergio Romano

Luoghi citati: Canada, Etiopia, Italia, Roma