Ci insegnava la clarté di Mario BaudinoGiovanni Tesio

IL PIZZICO IL PIZZICO di Mario Baudino SENZA nulla togliere ai meriti di Pamela L. Travers, la scrittrice scomparsa da cui Walt Dysney ha tratto Mary Poppins, non sarà un esercizio di «correttezza politica» troppo facile ripetere stancamente che i libri sì, erano importanti, ma il film è una vera schifezza? Mieloso, retorico, rassicurante, insopportabile? Ma lo avete guardato bene il bambino Michael Banks, un piccolo demonio, forse un perverito? E se invece Walt Disney avesse tratto dai materiali della Travers un grande mito contemporaneo, ambiguo e contraddittorio come i miti? Un consiglio: studiamoci la cassetta. Poi, al cinema: magari per «Angeli sopra Berlino». LI insegnamenti di Luciano Anceschi si mostrano tanto più efficaci e necessari in un tempo che sembra caduto in vecchi vizi e pigrizie. Questo in cui viviamo è un tempo che non ama i rischi e preferisce godere di benesseri provvisori che assomigliano a quei locali apparentemente lindi e abitabili ma solo perché tutto lo sporco è stato nascosto sotto il letto dove presto comincerà a verminare. Fuor di metafora ci sentiamo di poter dire che lo stato della letteratura oggi (in particolare della narrativa) comunica una immagine di compostezza (e di ordine) che non è altro che l'arresto dei processi vitali che agendo, magari anche difettosamente, all'interno di un corpo, ne assicurano (appunto) la vita. C'è qualcuno oggi (uno scrittore) disposto a accettare la sfida (pur ingenua) di Valéry che si dichiarava pronto a scrivere anche qualcosa di debole purché «en toute conscience et dans une entière lucidité»? No, non c'è nessuno perché si è perso il senso (e il valore) della lucidité, si è perso (per intero) la coscienza (la consapevolezza) della direzione e dello sforzo in cui nasce (può nascere) un oggetto di poesia, direzione e sforzo la cui acquisizione è più significativa dello stesso risultato cui quello sforzo può condurre. Ecco, Anceschi ci aiuta ancora a recuperare quella lucidità, ci sa dire le poche (essenziali) cose che deve conoscere chiunque (scrittore, critico o semplice lettore) frequenti il (si eserciti nel) campo della letteratura. H E L L ' ACi insegnaN EL 1961 c'era poco da stare! alla facoltà di Lettere e filosopresentavano grandi chiazze di umvini, sederi, salami, nonché impresoppressi. E la brezza della nostalgfascismo inespresso ma ancora raall'interno del vecchio edificio di v Come si legge un'opera d'arte? Quale è il suo rapporto con la realtà circostante? Cos'è la realtà in un'opera d'arte? Come agisce la Storia? Come il presente può far proprio il passato? Come si rapportano poetica e poesia o, meglio, quale è la loro vita comune? A tutte queste domande (e a molte altre) Luciano Anceschi fornisce risposte che appaiono tanto più convincenti quanto più si mostrano inconclusive, cioè si tengono aperte a ogni ulteriore scoperta. Quante volte lo abbiamo sentito dire, approssimandosi a concludere un discorso, che «pensava alla conclusione con un certo inquieto senso di pena»! Ecco, il primo merito di Anceschi - e il primo insegnamento che ci impartisce - è il convincimento che le opere d'arte non possono essere chiuse in uno schema, che bisogna pazientemente ascoltarle, lasciando che siano esse (loro) a dettarci il loro senso e facendo dunque tacere ogni pregiudizio ideologico e di poetica. «Definitivo è una parola mortale», egli afferma. E con Savinio ripete che «tutto il male che funesta Un convegno a Bologna ripercorre la parabola dell'autore di «Autonomia e eteronomia dell'arte»: rifuggiva schemi, dogmi, pregiudizi ideologici H E L L ' A U L E T T A Ci insegnava la clarté N ! N EL 1961 c'era poco da stare allegri per chi, come me, si iscriveva ! alla facoltà di Lettere e filosofia di Bologna. I portici dell'Università presentavano grandi chiazze di umidità e di goliardia priapesca, sognante vini, sederi, salami, nonché impregnata di nostalgia dei casini da poco soppressi. E la brezza della nostalgia portava con sé un certo profumo di fascismo inespresso ma ancora radicato. Le cose non andavano meglio all'interno del vecchio edificio di via Zamboni. Una piccola isola a parte era l'«auletta di estetica». Qui Luciano Anceschi tesseva le sue lezioni intorno a quelle parole che, per noi del primo anno, rappresentavano vere e proprie illuminazioni: wit. esprit, agudeza. Contrariamente ai suoi colleghi, il Maestro non concedeva nulla alla platea: l'«auletta di estetica» era un palcoscenico disadorno e illuminato soltanto dalla luce della clarté. Presto mi accorsi che noi frequentatori dell'«auletta» eravamo disprezzati dai sognatori di salami e sederi nonché dileggiati dai «regolaristi» degli esami, così mi accorsi che la scelta di Estetica era stata anche una scelta politica. Eccitato dalla rivelazione, la comunicai ad Anceschi, che mi rispose citando Bacone. Avevo ancora molto da imparare sui Maestri. Alberto Gozzi il mondo, tutti gli orrori che ottenebrano le menti... vengono soprattutto dal fatto che gli uomini pensano una sola idea, sono incapaci di pensarne più di ima». E di autori vittime di questa lettura banalmente lineare, che li immiserisce e umilia, Anceschi ne indica più di uno ma uno spicca: Kafka. E a Kafka dedica uno dei suoi più bei saggi che, per la ricchezza di motivazione che contiene, ci permette di entrare in contatto con l'intero suo pensiero e metodo critico. Sul grande scrittore ceco si sono accumulate (e si continuano a accumulare) enormi banalità (ahimè, con la collaborazione di tutti); c'è chi pretende ridurre le sue opere a documento della crisi della borghesia, dell'insensatezza del mondo, della perdita della fede e della ragione; c'è chi pretende, facendo prevalere punti di vista di origine filosofica, ridurre la sua opera a celebrazione del pensiero esistenzialista. Anceschi si ribella: nega la poesia come documento e insiste sulle «irriducibuità della espressione artistica a certi motivi speculativi e morali, che l'arte talora assume in sé, componendoli nell'alta quiete delle sue figure». Autonomia e eteronomia dell'arte fu il suo primo libro e fin da allora, il 1936, in cui il libro uscì (e per tutta la vita) Anceschi ha combattuto contro coloro che si servono delle opere d'arte, non per seguirle in quello che esse dicono, ma per «parlare di qualcosa d'altro, magari dì politica e di economia». Certo l'arte tenta di unificare una quantità di elementi a lei esterni (eteronomia) ma, nel contempo, cerca d'imporre alla realtà dell'esperienza i propri impulsi formali. La realtà dell'arte non è la realtà del¬ l'esperienza. «Kafka è scrittore non tanto per avere contributo a cambiare in un certo modo il senso della vita, e la vita stessa, del suo tempo quanto per la nuova istituzione del discorso fantastico, per quella sua lucida, e quasi calcolata invenzione di simboli... Per aver trasfigurato in un tremendo splendore tanta realtà dell'inconscio, dell'irrazionale, dell'uomo buio...». Vorrei che su queste parole riflettessero i giovani scrittori di oggi, che sono convinti che ciò che si chiede loro è di raccontare il tempo in cui vivono: ciò che gli chiediamo, Luciano Anceschi A Bologna, da ieri fino a domani, è in corso un convegno per ricordare, a un anno dalla morte, la figura e l'opera del critico, «tra letteratura e filosofia». Tra gli organizzatori, amici e critici, da Barilli a Eco, a Curi, Giuliani, Raimondi, Sanguinea Mattioli, Rossi. anzi che la letteratura gli chiede, è di proporre nuovi spazi per l'immaginazione che consentano di fare avanzare (di portare en avanti oltre l'attualità, il fronte dei nostri pensieri, emozioni, sentimenti. Certo per attingere a un risultato così alto è necessario possedere la coscienza del tempo, la consapevolezza dei condizionamenti che l'attualità impone ma più ancora è necessario riflettere sugli strumenti espressivi cui affidarsi che se ridotti alla funzione di specchio riflettente al massimo possono produrre una buona fotografia. E prima ancora è necessario riflettere sullo stato delle nostre lettere e, in particolare, della nostra lingua, così pesante, immobile e inespressiva. E, per trovare una vita d'uscita, sembra indispensabile cercare aiuto nella nostra tradizione (storia) letteraria: dove allora non sarà l'Ottocento, così pedante e aulico, a venirci incontro ma semmai il Seicento, il secolo del Barocco, che proprio Luciano Anceschi provvide a rivalutare vedendo in quel secolo la fine del sogno logico che fino allora aveva ispirato il corso della letteratura e, per contro, l'avvento di una stagione in cui il sogno faceva spazio all'allucinazione e la deriva della parola sostituiva l'ordine della sintassi. E non è per caso che in un altro dei libri fondamentali di Ancesclii, Il Barocco e altre prove, troviamo scritto che l'atto di rivalutazione del Barocco, cui lui ha così validamente collaborato, ci ha permesso di «entrare dalla parte giusta nel Novecento, cioè di entrare nel nostro tempo, anche esso teatro di rovesciamenti inauditi, non da estranei, smarriti di fronte alle "novità" di cui eravamo testimoni; ma da viaggiatori consumati, muniti dell'esperienza e dell'intelligenza storica necessaria a fare fronte agli imprevisti di una situazione che mai, come quella di oggi, è apparsa percorsa da mqmetudini altrettanto furiose, da sproporzioni altrettanto abissali, da incertezze e terrori». Angelo Guglielmi Alessandro Manzoni di Stefano Stampa (1848, particolare) NIGRO: CERCATE I PROMESSI SPOSI NELLA TABACCHIERA DI HAYEZ LA TABACCHIERA DI DON LISANDER Salvatore Nigro Einaudi pp. 205 L 28.000 LA TABACCHIERA DI DON LISANDER Salvatore Nigro Einaudi pp. 205 L 28.000 IDEA di fondo è quella della miniaturizzazione: un mondo in piccolo in cui abita la lettura. Ne ha parlato Walter Benjamin e se n'è servito Salvatore Nigro in uno dei più bei saggi manzoniani degli ultimi tempi appena pubblicato da Einaudi con il titolo La tabacchiera di donLisander. Sottotitolo: Saggio sui «Promessi Sposi». Tutto il mondo in un'«opera mondo» e poi tutta 1'«opera mondo» in una scatoletta: un'intera biblioteca in un oggetto consueto, una tabacchiera, che nel ritratto di Francesco Hayez Manzoni tiene nella mano (sinistra) al posto del libro. Miniaturizzazione appunto, molto più propriamente che sineddoche. Non un frammento di mondo ma un mondo in piccolo. Nella sostituzione arguta e sottile va letto un principio di understatement e di ironia (a cui sem¬ brano collaborare, in contrasto con il viso ifluminato e spirituale, le mani grassocce, da massaio, del ritratto manzoniano di Hayez). Non è stato lo stesso Manzoni, del resto, a scrivere nel Fermo e Lucia: «quando si vuol far immaginare bene una cosa, bisogna rappresentarne un'altra»? Questo è l'assunto del saggio di Nigro. L'intertestualità (ossia la memoria dei libri altrui), nebulizzata dal Gran Lombardo in piccole «presine» di tabacco da pipa. E se ancora vi fossero dei dubbi, basterebbe far uso del testo: «La tabacchiera è un luogo mentale, sede della memoria let¬ teraria attiva nello scrittore del romanzo. Un richiamo, anche; per lettori disposti a brividare di agnizioni nel labirinto dialogico dei Promessi Sposh. L'immagine è domestica (dunque manzoniana) e insieme ingegnosa (dunque barocca). Assimila il gioco degli intrecci testuali ad un immaginario da romanzo d'appendice, per l'appunto indagato nei fìtti transiti (i passages parigini di Benjamin?) dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi. Senza contare la capacità saggistica di calare carte spesso sorprendenti con piccoli colpi di scena. Non è un caso che Nigro si di¬ chiari alunno di due muse: da un lato Sciascia, dall'altro Manganelli. L'illuminismo del primo, l'estro del secondo. Di questo la menzogna, di quello la verità. E così può accadere che in un libro di acutissime tessiture intertestuali si trovino espressioni assolutamente ignote all'accademismo indelebile di tanta critica sterile per concorsi più o meno truccati. Un esempio estremo? L'incipit del terzo capitolo: «La Fama è un centone anatomico. Uno svolazzo di dovizioso apparato. Uno sconcertato concetto. Divinità grifagna e nefaria, tutto, tra cielo e terra, involge e svolge: è una ciarla a scatoroscio; un deliramente che verità e menzogna non divaria». Il saggio - beninteso - non è un libro di base, non è per lettori di primo pelo ed è certo impropria la collocazione nella «Biblioteca Studio». I venticinque lettori manzoniani su cui Nigro svolge l'acuta digressione del secondo capitolo («Una questioncella, forse: ma di quelle che hanno fatto polverone»), potrebbe caricarsi, involontariamente, di una qualche ironia supplementare. Nella frondosa selva della bibliografia manzoniana c'era il rischio di limitarsi a raschiare il barile. E invece non è stato così. Intanto perché sorprende la ricchezza - di per sé consistente delle nuove tessere: i moralisti come Bossuet Bourdaloue Massillon rivisitati nelle pieghe più segrete, i letterati come il Bartoli sorpresi in luoghi cruciali, il Cherubini del dizionario milanese citato in risonanze inedite, gli scrittori di grido o di culto come Madame de Stàel o come lo Sterne shandyano e antisentimentale pizzicati in punti imprevisti (un elenco tuttavia parziale a cui andrebbe aggiunto, con il citato Defoe, l'invito al nome sicuramente proficuo di Fielding). Ma poi il saggio si distingue soprattutto perché gli andirivieni producono cortocircuiti davvero stupefacenti. Basterebbe pensare alla «sola multitudine» di un Anonimo un-due-tre, alla rilettura sempre aguzza ma mai capziosa di personaggi come don Abbondio, don Rodrigo, l'Innominato, fra Cristoforo, all'interpretazione per più versi novissima del Cinque maggio con le sue promesse agnizioni biblicoantimitologiche e il suo espandersi «pervasivo» nel romanzo. L'intreccio delle citazioni non mira alla meraviglia o al capriccio della semplice trouvaille né si chiude nelle strette dell'erudizione pura e semplice, ma agisce criticamente sul testo finendo a sottrarre il Manzoni a tutte le ipoteche di un moralismo che pure nel tempo gli è stato più volte imputato. Una parte notevole del saggio è riservata da Nigro a passeggiare, stando al libro maestro di Giovanni Pozzi, «sull'orlo del visibile parlare»: in quella zona di frontiera tra parola e figura che forma un vero e proprio romanzo manzoniano per fumetti. E qui corre il nome di un altro grande referente inglese, William Hogart, insieme con la folgorante definizione dei Promessi Sposi come romanzo «profondamente e intimamente hogarthiano». Ma altri sfrigolìi di «polemico commento e di sarcastica soprascrittura», come scrive Nigro, vengono anche dall'analisi del rapporto tra I Promessi Sposi e le illustrazioni «autorizzate» del Gonin. Niente va trascurato in questo saggio. A partire dall'esergo che sulla soglia avvisa: «Le tabacchiere son piccole, cielo e terra sono grandi, la narrazione è scarna, le storie sono tante». Così tante le storie che in tempi di stentata e di (ancora Nigro) «magagnata cultura» mai si vorrebbe che andassero a male. Giovanni Tesio

Luoghi citati: Berlino, Bologna, Fermo