L'Italia messa a nudo da cent'anni di Giro di Gian Paolo Ormezzano

L'Italia messa a nudo da cent'anni di Giro In un libro la corsa attraverso un Paese che da contadino diventa potenza industriale L'Italia messa a nudo da cent'anni di Giro i L 18 maggio parte dalla Grecia il Giro ciclistico d'Italia, che nacque nel 1903 e che è, per pause belliche, all'edizione numero 79. Si vogliono omaggiare i cent'anni delle Olimpiadi moderne. Sul piano sportivo ci sarebbero tutte le premesse per l'indifferenza popolare: assenze importanti (Indurain, Rominger, Pantani), nessun ciclista italiano specialista in corsa a tappe, frenesie del pallone con coppe e mercato e campionato europeo, Tour de France ed Olimpiade imminenti ed immanenti. Però si aspettano le solite grandi folle sulle strade, e il solito grosso show televisivo. Questo per la semplice ragione che la corsa è immortale, parla una lingua arcaica e intanto attuale, quella dei buoni sentimenti, della santa fatica, del benedetto sudore, della tenera semplicità. E' uscito un libro che studia proprio, del Giro, la scenografia mobile che è l'Italia. Il libro si intitola chiarissimamente L'Italia del Giro d'Italia, lo ha scritto Daniele Marchesini ricercatore e insegnante dell'Università di Parma, lo ha edito Il Mulino. Si è spesso detto e scritto che il ciclismo è favolosa occasione di conoscere la gente, il Paese, di fare ricerca economica, sociologica e sentimentale. Il libro è non solo il conforto, ma l'espressione concreta di questa tesi. C'è più Italia nei Giri di Marchesini che in tante visitazioni sentimentaloidi e in tante statistiche ghiacciate. C'è l'Italia dell'asfalto e della ghiaia, dei poveri e dei ricchi, dell'industria e dell'agricoltura. Il libro - tante tabelle, nessun ordine d'arrivo - è un gigantesco «come eravamo e come siamo», cifra per cifra, soldino per soldino, bipede per bipede. Un Censis su due ruote Il Giro come istituzione è la premessa del lavoro. Quello che parte fra poco dell'istituzione ha anche una certa rotondità di ricorrenza: è il numero 50 del dopoguerra, in Italia si ricominciò con u Giro nel 1946, in Francia dove pure il Tour è pane nazionale aspettarono ancora un anno prima di ricucire il Paese con gli itinerari ciclistici. Il 30 giugno di quel 1946 il Giro fu atteso da chiodi, sassi, colpi di pistola, erano i fautori dell'annessione di quei territori alla Jugoslavia, la corsa si bloccò a Pieris, presso Monfalcone, appena dentro la «zona A», a Trieste si riuscì a far arrivare una rappresentanza dei corridori, guidata da Giordano Cottur, enfant du pays, fra donne in ginocchio che gridavano Italia e lanciavano fiori. In quel 1946, informa Marchesini, circolavano nel Bel Paese tre milioni di biciclette e 149.000 autovetture. Il reddito medio nazionale era di 60.000 lire l'anno, ci voleva un terzo di quella cifra per comprare una bicicletta. Fioriva l'arte di arrangiarsi. Era un'Italia povera ed ansiosa, contadina e vogliosa, semianalfabeta e calda. Qualcuno aveva già capito tutto del ruolo dello sport, che è collante ed è lievito: il Papa, ad esempio, che stava molto vicino al ciclismo. Era un'Italia di poco asfalto, le grandi spinte della motorizzazione sarebbero arrivate nei primissimi Anni Cinquanta. I primi ciclomotori erano considerati biciclette che facevano un po' di rumore, al massimo dei bonsai di motociclette. Orio Vergani raccontava perfettamente, anno dopo anno, la sua scoperta dell'Italia nuova, dell'Italia in crescita proprio attraverso la pa¬ rete di folla del Giro: compaiono le donne, cambiano i vestiti, le facce. Nascono dal giornalismo ciclistico lessico nuovo, metodi di approccio all'uomo faticante, visuali speciali di panorama non solo stradale, ma sociale, umano. I campioni della bicicletta sono campioni nel senso proprio di rappresentanti della vita: fortemente didascalici, nel bene e nel male, sempre. Da Luigi Gamia che fa suo il primo Giro, porta a casa 5325 lire di premi, sui 30 milioni di adesso, e al giornalista che all'Arena di Milano gli sollecita la prima frase da vincitore dice che gli brucia il culo, rifiutando qualsiasi epica facile, sino ai miliardari eroi telecomandati (nel senso di comandati dalla televisione) di oggi, c'è tutta la sistemazione generale attiva e ci sono tutti i lu¬ cori dello sport, e dei suoi uomini nel diorama del proprio tempo. L'affresco è completo. C'è l'Italia del reddito medio e del primo boom, esposta in percentuali e non in letteratura della comodità o della sofferenza. Ci sono i fachiri ciclisti che pedalano tappa dopo tappa e i fachiri cittadini che tirano avanti giorno dopo giorno. C'è lo spostamento degli italiani dalle campagne alle città, e ci sono gli spostamenti del Giro dagli itinerari classici, sovente drammatici, a quelli moderni, sovente edonistici, con il pretesto del turismo. I raffronti sono sempre realistici, chiari. Per Learco Guerra una tappa vinta significa più del guadagno mensile di un magistrato. Ma senza fare archeologia degli Anni Venti e Trenta, ecco cosa vale, nel 1950, una vitto- ria di tappa di pianura, la meno retribuita: 100.000 lire, quasi due terzi del reddito medio annuale degli italiani, che è di 163.198 lire. Bellissimo è perdersi fra le chicche. I mestieri originari e quelli finali dei ciclisti professionisti, una volta e adesso. Poi gli agganci politici sommersi e quelli (Bartali) espliciti. Gli agganci espliciti od occulti del ciclismo con la pubblicità. La lotta della bicicletta contro il cavallo, la moto, l'auto, il treno, l'aereo: sino alla quasi cristallizzazione da strumento di lavoro in strumento da diporto. Lavoro anche criminale, diceva Cesare Lombroso, che all'inizio del secolo ravvisava nella bicicletta uno strumento ideale per favorire furti, scippi, rapine, con possibilità di fuga rapida dal luogo dedelitto. E nel 1927, dunque con iGiro già ben cresciuto (gli anni degrande Binda), un suo seguace, tale Del Vecchio, presentava così la tipologia dello sportivo, e specie del ciclista: «Individui violentirissosi, con mentalità arretrata che si porta al livello delle popolazioni antiche o selvagge, con spettacoli che danno libero sfogo alla innata malvagità o necessità dlotta». Ullallà. Gian Paolo Ormezzano Lungo le strade di polvere e asfalto cambiano facce, costume, economia E nel dopoguerra anche il Papa scopre il valore dello sport Il traguardo dei tacchini a Mantova nel '56; qui accanto, il gregario Giovanni Roma; sopra, i rifornimenti al giro del 1911