Cinquantanni fa a Napoli Vittorio Emanuele III firmava l'abdicazione: si illudeva di salvare il trono

Cinquantanni fa a Napoli Vittorio Emanuele III Cinquantanni fa a Napoli Vittorio Emanuele III firmava l'abdicazione: si illudeva di salvare il trono tIL notaio Nicola Angrisani I arrivò a Villa Maria Pia alle I tre e un quarto del pomeI riggio e si sentiva un po' co_JLI me il signor Charles-Henri Sanson, il boia che rispettosamente ma doverosamente decapitò Luigi Capeto. Era giovedì 9 maggio 1946 e a Napoli il sole era velato da un po' di foschia. Da quel giorno la monarchia sabauda cominciò ad uscire definitivamente dalla storia d'Italia. Il giorno in cui l'ultimo re se ne andò fu il 13 giugno 1946: indossava una grisaglia un po' strapazzata e aveva in mano il cappello basso che non calzò mai. Uscì dal portone a vetri del Quirinale e si avviò con passo calmo e un sorriso raggelato verso il cortile d'onore in cui era schierata la guardia del re. Tre plotoni di corazzieri in uniforme blu agli ordini del colonnello duca Giovanni Riario Sforza. E poi la «piccola guardia reale», formata da granatieri: lo stesso suo corpo militare. Umberto era sopravvissuto come monarca soltanto 25 giorni: quelli che separavano l'atto di abdicazione del padre dal voto degli italiani nel referendum. La data storica è quella del 2 giugno, ma si votò anche il 3, un lunedì, e così da allora si sarebbe fatto in tutte le elezioni, fino alle ultime in cui si è votato soltanto di domenica. Denis Mack Smith ha ironizzato su questi «tempi lunghi» per votare dei soli italiani, ma sono tempi calibrati sull'importanza di quell'evento e che furono decisi per dare a tutti la possibilità di votare. Umberto passò in rassegna la guardia, che nelle foto d'epoca appare poco marziale, un po' sbilenca, probabilmente emozionata. All'aeroporto il giovane re (non aveva quarant'anni) si girò per salutare i fedelissimi che lo rincorsero fino alla scaletta dell'aereo. Disponiamo di immagini molto mosse, si vedono volti concitati, espressioni contratte, immagini sgranate. Il velivolo militare rullò sulla pista e prese il volo perdendosi poco dopo nel cielo. E con quell'aereo si sarebbe persa la traccia fisica, il contatto, la presenza della famiglia sotto il cui regno si era raccolta l'Italia. Vittorio Emanuele aveva regnato 44 anni, più due come sovrano sospeso dalle funzioni. Umberto soltanto quelle poche settimane che gli valsero il titolo amaro di re di maggio. Nel pomeriggio del 9 maggio era dunque partito il veccluo Vittorio Emanuele con la regina, dal molo Beverello dove una lancia li trasferì sull'incrociatore Duca degli Abruzzi, prua verso l'Egitto. Umberto poco dopo. Da allora i membri della casa reale sono banditi dal suolo patrio, benché si riaffaccino frequentemente - anche in questi giorni - proposte per riammetterli. E' giustificata questa richiesta? Perché la ferita, dopo cinquant'anni, tarda a cicatrizzarsi? Ciò che accadde quel 9 maggio 1946 serve proprio per rispondere a questa domanda. Quell'atto tardivo e frettoloso, su carta bollata da 12 lire, mandò in bestia il fronte repubblicano come un arrogante tentativo di pressione sugli elettori. Ma perché il sovrano ci mise tanto ad abdicare, e perché lo fece così di mala grazia? Certamente per un motivo psicologico: non poteva sopportare il figlio. Lo infastidiva persino la sua statura fisica, da cui era soverchiato, e trovava irritante la timidezza imbarazzante di Umberto, prodotta dal suo comportamento gelido e militaresco. Pur di non cedergli il trono, seguitava a ripetere che «i Savoia regnano uno per volta», rifiutandogli la corona in tempo utile. Poi, di colpo, Vittorio Emanuele aveva capito che non c'era altro modo di agire e decise di far credere che l'atto di abdicazione gli era stato intimato, quasi estorto, dagli americani i quali, invece, rimasero molto sorpresi e anche piuttosto irritati. Il maresciallo maggiore Alfonso Bove, sudatissimo, aveva avuto l'ordine di predisporre in fretta e furia la cerimonia e lui aveva chiamato il notaio il quale prese di onorario la somma di 129 lire. Il vecchio re arrivò vestito con panni inglesi, compresi calzini e bretelle. Il furiere di casa reale, il maresciallo Bove, si era meravi gliato vedendo il principe ereditario andare dal padre: «Non avevo mai visto il principe Umberto venire a trovare suo padre. Veniva soltanto per vedere la regina. Padre e figlio non andavano d'accordo perché il principe giustamente reclamava i suoi poteri, che quello si rifiutava di consegnargli: era pieno di fisime, cocciuto». Enrico De Nicola, futuro capo provvisorio e primo Presidente della Repubblica, aveva tentato di convincerlo, e di fronte alla sua re¬ sistenza aveva osato fargli osservare che «un re, quando perde una guerra, deve andarsene». Vittorio Emanuele non aveva la più pallida idea dei corretti rapporti cui avrebbe dovuto sottostare anche lui: non tollerava che i suoi atti regali potessero essere giudicati. Si sentiva nel suo diritto, punto e basta. In compenso, non faceva una piega di fronte agli ufficiali britannici che lo trattavano come un nemico vmto. Il ministro della real casa Falcone Lucifero si rese conto che restava un'unica cosa da fare: mandare al vecchio re il figlio, affinché lo invitasse ad andarsene. Lucifero ricorda: «Fu una cosa penosa, ma non c'era altro modo». Umberto entrò nello studio del padre e gli parlò: gli raccontò di essere stato fischiato alle Fosse Ardeatme e che il 4 maggio Sandro Pertini aveva allegramente sparato alcune raffiche di mitra in aria davanti a Villa Crespi, a Milano, perché sapeva che lui, Umberto, era lì dentro. Il piccolo re rifletté per qualche secondo e poi finalmente annuì. E decise che tutto avrebbe dovuto svolgersi nel giro di poche ore, con un vero blitz istituzionale: avvertì la regma di preparare i bagagli, chiese che si ponesse a sua disposizione l'incrociatore Duca degli Abruzzi, fece convocare il notaio e varcò alle 15,15 in punto la soglia dello studio dove sedette alla scrivania, per compiere l'atto dovuto. Il dottor Angrisani gli porse la penna. Lui la intinse nel calamaio e prese a vergare quelle parole senza enfasi e con una grafia da quinta elementare, o da maestra, rotonda e dispersa: «Abdico alla Corona del Regno d'Italia in favore di mio figlio Umberto di Savoia Principe di Piemonte». La firma la mise di sghimbescio: Vittorio Emanuele. E, sotto, la data, ma sbagliata: scrisse Napoli 6 maggio 1946, anziché 9. Il lapsus dimostra che ostmatamente cercava di fermare il tempo e anzi di farlo retrocedere. Il duca Acquarone tossicchiò: «La data». Vittorio ripassò il 6 con un 9 più grande e più inciso, facendo un pastrocchio, ma leggibile. Poi si alzò. Al figlio che stava li in piedi, impalato e con gli occhi lucidi, il piccolo ex re disse soltanto, con un pizzico di affettuoso astio: «Va là, Beppo, adesso divertiti tu». Beppo, come lo chiamavano in casa il padre e la madre, impallidì e non disse nulla. Accompagnò il padre verso la porta, dove lo aspettava il fedele generale Puntoni: «Cosa vuole, è una tara di famiglia. Come re è uscito bene soltanto mio nonno Vittorio Emanuele. Quanto a suo padre, Carlo Alberto, dovette abdicare come ho fatto io oggi. E mio padre fu assassinato. Peggio di così...». Peggio di così, per casa Savoia, ci fu soltanto il referendum ventiquattro giorni più tardi. Dopo aver perso tempo per altri dieci giorni di mcertezze e stranimenti, anche Umberto, re di maggio, partì pei l'esilio, destinazione Oporto, Portogallo. Quanto a suo padre Vittorio, lo ritroviamo tranquillo ad Alessandria d'Egitto, ospite di re Farouk. L'ultima foto lo mostra in barca, con il casco coloniale in testa, la regina di fronte, la canna da pesca in mano. PaoSo frizzanti Ma la corona era condannata: 25 giorni dopo, con l'esilio dell'ultimo re Umberto, la monarchia usciva dalla storia d'Italia Il figlio guardava con gli occhi lucidi: il piccolo monarca mise la firma di sghimbescio e commise un lapsus scrivendo la data sbagliata Napoli Vittorio Emanuele III ndannata: con l'esilio e Umberto, chia usciva ria d'Italia firmava labdicazione /Di Il documento dell'abdicazione; a sinistra, la prima pagina della «Stampa» con il risultato del referendum