Un uomo del potere

Un uomo del potere Un uomo del potere Con lui finisce il tempo del mito UN GRANDE DELL'ARENA ON fu il più grande di tutti, Luis Miguel Dominguin. Meglio di lui ce ne furono un sacco, da Belmonte a Manolete, allo steso Ordonéz, Joselito, Sànchez Mejiàs. E forse perfino il Curro Romero di oggi, che a 62 anni di età pare un monumento sottile e quando imbrocca la giornata giusta le pagine dei quotidiani si riempiono di titoli che suonano la tromba. E lo chiamano angelo. Non fu il più grande, ma certamente fu il più moderno, quello che sentì come nessun altro il gusto forte del suo tempo e lo consumò interamente, senza concedersi mai la tentazione di un ripensamento. Con Dominguin finisce comunque un'epoca, quella dei toreri che nella loro figura fissavano il segno eterno del mito. La morte nel pomeriggio, le cinque della sera, e Hemingway e Garcia Lorca e i disegni rapidi di Picasso; e la tragedia che sta in agguato, sotto il portale scuro della Plaza. E' un'epoca irrimediabilmente passata, che le leggi dell'industria dello spettacolo hanno travolto con indifferenza. Dominguin faceva venti o trenta corride l'anno, ma per gli aficionados erano il cantico dei cantici e se ne parlava per settimane intere; oggi uno come Jesulin, che è il più bravo di tutti (o almeno il più popolare), di corride in un anno è capace di farne duecentocinquanta, anche trecento, anche una a mezzogiorno una al pomeriggio e una la sera; come fosse alla catena di montaggio. Il toro, la faena, il clarin, la stoccata, e avanti un altro che là fuori c'è già l'«avioneta» con il motore acceso per trasportarlo subito alla nuova corrida e non si può perdere nemmeno un minuto di tempo e lui si cambierà in aereo e si laverà il sudore e sarà pronto a sorridere al nuovo pubblico e al nuovo toro. Anda, toro, che ti devo ammazzare. Oggi ammazzare i tori è un'industria, come fosse l'androne del macello con le bestie già appese da scannare. Dominguin no, lui era un altro film. Lo spettacolo della morte con lui aveva una sua dignità since ra, sulla sabbia grigia dell'arena si combatteva una battaglia autentica (anche se traditrice) e le preghiere, i santini, la scaramanzia giocata fino all'ultimo, la sottile mquietudine della lettura attenta dei difetti del toro - tira un poco a destra, no, tira a sinistra, e la testa, ecco, vedi, la tiene alta e storta - erano la ricevi toria della vita; non il rituale inutile di una liturgia senza più verità. Fu così per molti, nella lunga sto ria del «toreo», ma Dominguin ebbe la fortuna di starci all'appuntamen to giusto, quando la Spagna si apri va lentamente alla modernità e veniva scoperta dalle luci di Hol lywood; che la reinventarono per le sognanti fanciulle di un Middlewest universale. Di questa invenzione Domingm'n fu l'attore protagonista, era alto e magro, e bello; un atleta di Fidia. Aveva un fisico di muscoli lunghi, e un profilo puntuto, che quando tirava la stoccata diventava un'unica linea continua con la lama della sua spada. Non c'era ancora la televisione, ma il sangue e l'arena di Tyrone Power sembravano il documentario della sua vita. Ebbe donne per quanto è giusto che ne sciupi un mito, e si sposò a Las Vegas, naturalmente. Anche se allora Las Vegas era poco più di una scommessa affondata nelle sabbie del Nevada. Al banco del «Chicote», a Madrid, in fondo alla Gran Via, c'è ancora il vecchio cameriere che lo ricorda, e volentieri parla di lui, di Ava (la senóra Gardner, certo), di don Ernesto (el senòr Hemingway, certo), dei whisky che bevevano fino alle 3 del mattino e delle liti e della gelosia. Il fotoromanzo degli Anni Cinquanta, il «Grand Hotel» fatto vita quotidiana. Ma tutto questo, che comunque è storia e non fumettaccio da rotocalco, spiega poco di Dominguin, del suo essere stato indiscutibilmente il numero uno. Lui ebbe molto di più perché seppe essere molto di più dell'attore della sua corrida. Un suo ritratto felice lo aveva disegnato vent'anni fa Jorge Semprun, uno dei grandi intellettuali di Spagna (che poi sarebbe stato anche ministro della Cultura con Felipe Gonzàlez); il libro si chiamava ((Autobiografia de Federico Sànchez», e in una pagina, raccontando di ima cena a Parigi nel '61 con Dominguin e con il fratello di questi, Domingo (che era anche lui, come Semprun, un dirigente clandestino del partito comunista), Semprun scrive: «Durante quella cena, Luis Miguel, con il finissimo istinto che lo caratterizza e con il cinismo che lui manifesta apertamente, ci pronosticò, a Do¬ mingo e a me, un rapido disinganno, una volta che l'opposizione antifranchista avesse vinto; "A voi comunisti il potere non interessa, mentre invece il potere è l'unica cosa che conta"». Dominguin si prese quindici cornate ma aveva una testa che funzionava, in un Paese addormentato nel conformismo. E il suo stile elegante e severo, di senórito di pelle, l'agilità delle sue faene, l'acutezza sfrontata delle sue intrusioni nella mondanità esclusiva del regimo, lo portarono a diventare una delle figure di spicco in quella Madrid piccola e provinciale. Diceva: «Mi affascina, l'alta società. Quando vedo un duca svengo. Se si tratta di una duchessa, non svengo, è chiaro». Giocava il don Giovanni, ma lo faceva con distacco. Oggi a Jesulin le aficionadas lanciano nell'arena le loro mutandine, e gli dicono: «Fammi fare un figlio con te». Jesulin sorride, raccoglie le mutandine, e avanti un'altra. Jesulin è l'eroe del tempo televisivo, quando la volgarità fa stile. A Dominguin nessuna donna ha mai lanciato le mutandine sulla sabbia dell'arena bagnata dal rosso de! toro; lui, l'Ava Gardner, la Garbo, la Brigitte Bardot, la Romy Schneider, la Lucia Bosè, le ebbe nella stanza del Ritz. Con l'aria condizionata, e i camerieri in polpe. Ma è un tempo che è finito. E Dominguin muore proprio ora che la destra dei nipotini di Franco è tornata al potere; lui, che fu consapevolmente, cinicamente, disinvoltamente, uomo del potere. Mimmo Candito Seppe dare allo spettacolo della morte una dignità sincera, lontana dalle volgarità di oggi

Luoghi citati: Las Vegas, Madrid, Nevada, Parigi, Spagna