Dopo Vidusso si cerca un nuovo sovrintendente: sarà il diciassettesimo del dopoguerra di Sandro Cappelletto

Roma, l'Opera in trincea è stanca di guerra Dopo Vidusso, si cerca un nuovo sovrintendente: sarà il diciassettesimo del dopoguerra Roma, l'Opera in trincea è stanca di guerra /j| ROMA l'I risiamo, con disperante I fatalità. L'Opera della capiI i tale è di nuovo senza timoìfl I niere. Giorgio Vidusso, generale e pirata di mille battaglie, è tornato nella sua Trieste dopo le dimissioni: due anni di trincea, di agguati e di incursioni sono bastati a stancarlo. Come per gli amanti di Turandot, anche il suo nome si aggiunge alla lista dei sovrintendenti che non hanno saputo sciogliere gli enigmi di questa misteriosa terra di frontiera, dove l'imprevedibilmente bello e il trucido si confondono uno nell'altro, nelle stesse persone. Dal dopoguerra, il teatro ha divorato sedici sovrintendenti e otto commissari straordinari: un primato mondiale, alla Scala si sono alternati in quattro: Ghiringhelli, Grassi, Badini, Fontana. Si lavora già all'imminente Sonnambula con la regia di Pupi Avati, si bordeggia tranquilli verso la conclusione di una delle più decorose stagioni del teatro, segnata anche da qualche punta di eccellenza come il mascagniano Iris inaugurale, e l'abituale assenza del principale responsabile del teatro non preoccupa più di tanto i corpulenti macchinisti che troviamo, seguendo l'infallibile odore di soffritto, affaccendati attorno alle cucine del «ristorante» del secondo piano sopra al palcoscenico. Un modo indubbiamente originale di risolvere il problema della mensa. Peccato la sala, arredata alla tirolese con scampoli di scene del Guglielmo Teli, non sia aperta al pubblico; da generazioni, è tra le più affidabili della capitale, tra le più allegre e caciarone. Anche ieri l'impasto fra le linghine e l'astice era carnoso, denso. E il pesce freschissimo, appena arpionato nelle acque care a Circe di Sperlon ga e di volata offerto ai palati esigentissimi dei colleghi da un giovane dipendente con l'hobby del subacqueo. I lavoratori, oggi, sono seicento: una miseria, dopo i fasti dell'epoca di Gian Paolo Cresci. Lui sfiorò quota mille, a firmare l'albo delle presenze trovavi sette volte lo stesso cognome. Aveva sistemato intere famiglie. «Spendi, Gian Paolo. Fai grande questo teatro», gli avevano suggerito Giulio Andreotti e Franco Carraro, allora primo cittadino. Lo ricordano come «il sindaco in freezer)), perché inventò l'espressione «la mia giunta si è autocongelata»: voleva dire che non aveva ancora deciso quando dimettersi. Lo sbrinarono in fretta. Sembrano secoli, ma sono passati meno di tre anni. Cresci intanto obbediva, toccando 60 miliardi di deficit. I giudici della Corte dei conti dovettero stropicciarsi gli occhi quando certificarono l'ammanco - «superiore a quello mai raggiunto da tutti gli Enti lirici italiani» - ma il Sardanapalo della lirica ripeteva sereno: «Nienf altro che il costo di due carri armati. La cultura costa». Ma dopo due anni di sfarzo, appena si profilò l'ombra di un periodo di magra, arrivò il segnale maramaldo, tra il mafioso e l'avanspettacolo. Paolo Carignani dirigeva una replica di Traviata, quando un pesante cartoccio piomba da dietro le quinte nel palco di proscenio. Cresci apre e si ritrova tra le mani un corpo caldo: un gatto nero, decapitato. Alcuni sovrintendenti hanno lasciato ricordi impareggiabili. Chi aveva la disgrazia di una moglie convinta di essere un soprano e doveva farle cantare Lohengrin: l'esperienza è stata fatale, da allora vent'anni fa - l'opera manca dal teatro. Chi preferiva la fuga all'inglese, chi trafficava con le agenzie e scritturava cantanti falsi, chi quando anche Roma era «da bere» offriva cene per trecento coperti all'Hotel Excelsior, pagate magari con denari avuti a usura. «I peggiori anni della mia vita», dice Roman Vlad. Solo a parlarne gli viene l'ansia, anche lui - erano gli Anni Settanta - travolto dall'incontrollabile falange macedone del teatro. Una sessantina di dipendenti che non rispondono a nessuno: ai partiti, i vecchi e i nuovi; ai sette sindacati interni, al Vaticano, alla Curia, al Comune. Salvatore Giannetto, lea¬ der - «il mio incubo», ripete Cresci degli autonomi di destra, dice che i pretoriani sono asserragliati attorno alla segreteria generale dell'ente, fortino presidiato da quindici anni da Fioravante Nanni. «Che tremende litigate con lui, quando era alla Scala», ricorda Luciano Belio. Eterno aspirante alla carica massima, sorriso paternale e da grande burocrate incollato sul volto, eterno sconfitto. Ancora in lizza, forse soltanto autocandidato. «Ce lo dobbiamo tenere», sospira Borgna, assessore alla Cultura. «Ha vinto un regolare concorso». Gli Amici dell'Opera vorrebbero far presto; il loro vicepresidente Vittorio Emiliani, ex direttore de II Messaggero, ex presidente della Fondazione Rossini di Pesaro, ex deputato progressista, non declinerebbe l'offerta. Le candidature ora sono pubbliche e così l'Accademia di Santa Cecilia propone Mauro Meli, direttore artistico di Ferrara Musica, dove ben lavora, benedetto dal presidente onorario Claudio Abbado. Ma un festival che per la massima parte ospita spettacoli già prodotti, è una barchetta al confronto di questo incrociatore, delle tempeste che lo squassano. Il Conservatorio suggerisce Gian Luigi Rondi, presidente in scadenza della Biennale di Venezia, dove venne eletto nell'ultima grande spartizione «culturale» tra de e psi, quando Gianfranco Pontel, nella generale stupefazione, si ritrovò affidata la Fenice. «Ho letto la Storia della musica di Massimo Mila e conosco la Quinta di Mahler», protestava se qualcuno osava discuterne la competenza, a cominciare dall'allora leader dell'opposizione veneziana e futuro sindaco, Massimo Cacciari. Dopotutto, lo stipendio vale la faccia tosta: centocinquanta milioni l'anno, oltre ai rimborsi spese. E raramente viene smentita la regola aurea così riassunta da Giacchino Lanza Tornasi, oggi direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a New York, dopo trent'anni passati nei teatri, da Palermo a Roma, a Bologna: «Alla sovrintendenza si elegge U primo dei trombati alle ultime elezioni politiche». Anche il regista Sandro Sequi è candidato (proposto dall'Accademia Filarmonica), anche Nino Bonavolontà, già direttore d'orchestra e per tempo immemorabile responsabile dell'Ente Lirico di Cagliari, oggi commissariato. Ma la decisione vera riguarda Sergio Escobar, attuale sovrintendente del Carlo Felice di Genova. «Due anni fa, col sindaco non si sono lasciati bene», confida Fabio Borrelli, membro del Consiglio di amministrazione: almeno questo è cambiato, il parlamentino del teatro annovera persone rette. Chiamato a resuscitare la salma, nuda e spoglia, lasciata da Cresci, Escobar pretendeva garanzie di autonomia, di libertà di scelta nell'organigramma. Ma la giunta progressista del Campidoglio affacciava sul governo di destra di Palazzo Chigi e poiché il paralizzante equilibrio degli Enti Lirici oscilla tra potere locale e centrale, Rutelli preferì non forzare la mano, dopo 0 no secco di Alleanza nazionale. Ora, invece, Comune e governo parrebbero alleati. Escobar, competente, determinato e ambizioso quanto serve, accetterebbe volentieri la sfida, conscio del rischio che corre, fiducioso nelle possibilità aperte dalla parola magica: Fondazioni, organismi giuridici ed economici autonomi, meno vincolati ai lacci della lottizzazione, aperti al contributo dei privati. Seconde alcuni - la Scala in testa - orizzonte di salvezza per i nostri teatri, per altri, tutti i teatri del Sud e i meno ricchi del Nord, da Trieste a Torino, possibile stratagemma inventato dallo Stato per sottrarsi ai suoi compiti di primo sponsor della nostra vita culturale. Mecenate invero piuttosto sparagnino: in dieci anni ha ridotto il contributo del 25 per cento e nelle ultime settimane il governo Dini si è prodotto in un'ulteriore, improvvisa rasoiata. «E' la mia personale delenda Carthago: l'Opera va chiusa, per un anno intero. Per risanarla vanno verificate le competenze e la qualità artistica. Il teatro della Capitale non può essere sempre a rischio di mediocrità», suggerisce Petrassi. L'unico a non avere fretta sembra Vittorio Ripa di Meana. Avvocato, alleato di giunta del sindaco Rutelli, melomane appassionato, presidente degli Amici di Santa Cecilia, è l'uomo delle emergenze. Nel 1994 dopo l'uragano Cresci, adesso dopo l'improvvisa partenza di Vidusso. Forse non sarà l'uomo della normalità, ma deve ancora deciderlo. E nessuna fretta hanno i macchinisti. Il sugo per la pajata bolle lento lento, il rigatone è quasi pronto, come le belle scene di Sonnambula. Ma se si arrabbiano loro, non le vedremo mai. Sandro Cappelletto Fra i candidati Vittorio Ripa di Meana e Sergio Escobar Goffredo Petrassi: «Chiudiamo tutto per un anno e risaniamo» G«pe Una immagine dell'Opera di Roma; qui a sinistra, Giorgio Vidusso; in alto, Gianpaolo Cresci e Sergio Escobar