Le pene del carcere? Fanno bene agli artisti di Aldo Cazzullo

21 Storici, filosofi, critici indagano: in cella la letteratura trova migliore ispirazione Le pene del carcere? Fanno bene agli artisti N ON m'importa di finire in galera», ripeteva Richard Nixon a Alexander Haig, che lo ammoniva sulle conseguenze della sua incriminazione per il Watergate. «In galera le persone danno il meglio di sé. Pensa a Gandhi. 0 a Lenin». 0 a Marco Polo, che in un carcere genovese dettò il Milione a Rustichello da Pisa. 0 a Antonio Gramsci, che dalle celle di Formia e di Turi ci lasciò i suoi Quaderni. Soltanto in un campo di prigionia nazista Fernand -Braudel trovò il tempo di dare forma organica alle sue lezioni: Il Mediterraneo lo scrisse a memoria, citando libri che non poteva consultare. E Oscar Wilde approfittò della sua condanna per omosessualità e offesa alla morale per comporre la Ballata del carcere di Reading. La cella come luogo della creazione artistica. Il carcere fa bene alla letteratura. Profili e simboli della condizione de', prigioniero - le sbarre, le catene, il buio, l'umidità - scavano una vena di riflessione, di ripensamento, a volte di lirismo, che alimentano il lavoro letterario. Sarà anche che in carcere si ha molto tempo libero. E poi la prigione (altrui) ha ispirato a Foucault, Nietzsche, Kafka alcune tra le loro pagine più grandi e terribili. Il carcere come metafora dell'esistenza, della solitudine, delrimpossibilità di agire. Alla cella, cifra della modernità, la rivista francese Lignes dedica un numero monografico, intitolato Les Ambassadeurs, Art e pensée en prison (Editions Hazan), riunendo tredici brevi saggi di critici letterari come Jean-Louis Comolli, scrittori come Armand Gatti, sociologi come Pierre Tournier, filosofi come Etienne Balibar, autorità carcerarie come Thierry Dumanoir. Gatti ricorda che le intelligenze più brillanti del Rinascimento conobbero il carcere, da Giordano Bruno a Tommaso Moro, che passò gli ultimi giorni in una segreta, a meditare la sua Utopia. Ma trascura le fertili detenzioni di alcuni tra i padri del Risorgimento italiano: se Le mie prigioni di Silvio Pellico costarono all'Austria più di una batta- glia perduta, Giovanni Berchet, amico e corrispondente di Alessandro Manzoni, compose dietro le sbarre le sue più note ballate popolari risorgimentali, tra cui La canzone di Legnano, perpetuando l'uso pobtico di Alberto da Giussano fino ai nostri giorni. L'età barocca ha imprigionato alcuni tra i suoi massimi poeti. Come il veneziano Bartolomeo Dotti, accusato due volte di favoreggiamento in omicidio: ma se la prima era probabilmente colpevole, la seconda fu vittima di mia macchinazione ordita dall' oligarchia nobiliare, che ripagò scrivendo dietro le sbarre le sue Satire più feroci. Privato della libertà fu anche Torquato Tasso, bollato come folle per aver scagliato un coltello contro un servo e rinchiuso in manicomio, a sfogare la sua ansia depressiva e le sue manie di persecuzioni in liriche grandi e amarissime: «Or in career profondo o son cresciuti/i miei tormenti, od è più acuto e forte/vecchio dolor, cui giro aspro sia cote», dove le sbarre diventano pietra che affila la sofferenza del poeta. Ma la vera sublimazione del carcere si raggiunge con l'opera di Donatien-Alphonse Francois, marchese de Sade. Al punto che si sospetta ricercasse l'arresto e la detenzione come esperienza sensuale e artistica. Nel 1772 è condannato a morte in contumacia per l'«affaire de Marseille»: ha somministrato afrodisiaci a una prostituta, che ha creduto di essere stata avvelenata. La sentenza viene eseguita in effigie, lui è riparato in Italia. Fuga d'amore. Con la cognata, però. A Chambéry è arrestato e tradotto nel castello di Vincennes, alle porte di Parigi. Assolto, ritorna in Francia e finisce alla Bastiglia. Dove scrive furiosamente. Il 4 luglio 1789 lo trasferiscono a Charenton, in tempo per evitare (per 10 giorni) l'assalto dei rivoluzionari, e continuare tra le mura amiche della cella la stesura delle 120 giornate di Sodoma. Una generazione di intellettuali italiani si forgiò nelle carceri e ai confini fascisti. Carlo Levi a Eboli, certo. Ma anche Ernesto Rossi e Riccardo Bauer a Regina Coeli, dove il primo scrisse L'Elogio del carcere, il secondo le sue più felici bósinade, poesie in dialetto milanese. A loro si aggiunsero Vittorio Foa e Massimo Mila, per cui «il carcere fu la grande esperienza formativa della vita, insieme con la musica e l'alpinismo», come ha scritto Alessandro Galante Garrone. In cella Mila imparò il tedesco e diede mano alla traduzione di Siddharta. Piansero una sola volta, quei giovani antifascisti: quando seppero della fucilazione di Ras Nassib, il Cesare Battisti etiope. Di catene e prigionieri è ricca la letteratura d'ogni tempo. Dopo il conte Ugolino, Dante mette in scena, nell'XI canto del Purgatorio, Provenzan Salvani, che non esita a mendicare in piazza del Campo per riscattare Mino de' Mini: «Per trar l'amico suo di pena/ch'e' sostenea nella prigion di Carlo/ si condusse a tremar per ogne vena». Manzoni evita la prigione a Renzo Tramaglino, che si salva chiamando in aiuto il popolaccio milanese, ma Dumas ci sbatte senza pietà il conte di Montecristo. Perché tanti carcerati e carcerieri? «Perché i detenuti sono ambasciatori», sostiene Dumanoir. «Sono tutti, colpevoli e innocenti, messaggeri di una dimensione altra, rappresentanti di una condizione umana degradata e solitaria. Sono la rottura dell'armonia sociale, la corda spezzata del liuto, l'anello che non tiene. E hanno qualcosa da dirci». Ha scritto Mila: «L'esperienza del carcere e del confino sta come mia grande realtà incrollabile e proietta una lunga ombra che ancora ci accomuna: come il persistente richiamo a ima verità superiore». Aldo Cazzullo Una lunga «catena» da Moro al Tasso da Sade a Gandhi Bruno, Braudel Un numero speciale della rivista «Lignes» Dall'alto, Wilde Gramsci e Gandhi Copia di primo stato di una tavola delle «Carceri» di Piranesi

Luoghi citati: Austria, Eboli, Formia, Francia, Giussano, Italia, Legnano, Parigi, Piranesi, Pisa