La sua città Anime sulla riva del Po «ferme e estatiche» di Bruno Quaranta
La sua città La sua città Anime sulla riva del Po «ferme e estatiche» ORINO di notte, la Mole, la Gran Madre, una scacchiera, una sequela di figure geometriche che coabitano all'insegna di un reciproco, assoluto rispetto, ignare dell'odierna osmosi fra ceti, età diverse, gruppi di interesse. Ciascuno al suo posto, con un dovere, un'angustia, una bizzarria, nella città di Casorati. Così com'è resa nella silografia su tavella di gesso, fra i più noti biglietti da visita subalpini. Un nugolo di «anime estatiche e ferme», la capitale casoratiana, fissate sulle tele insieme con «le cose mute e immobili, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi». Opere che nascevano (anche) nell'atelier di via Mazzini 52, una vena dell'ottocentesco Borgo Nuovo, verso il Po. Nato a Novara nel 1883, laureatosi a Padova, il Maestro raggiunse Torino nel 1918, «sotto il cocente lutto della morte di mio Padre». «Arrivai - raccontò in una mattina di autunno inoltrato. Una leggera, fredda, luminosa nebbiolina avvolgeva senza oscurarla - anzi illuminandola di una vivida luce d'argento - tutta la città. Essa mi appariva calma, regolare, tranquilla e silenziosa». Felice Casorati si divideva tra la casa-studio, «in un severo palazzo», e la scuola di via Galliari. Un ambiente - la «palestra» inaugurata nel 1928 - «moderno, cioè intellettuale e scanzonato», nel ricordo di un'allieva, Lalla Romano: «Il "maestro" compariva tardi, elegantissimo, con le ghette e la mazza, era moderno, cioè freddo: almeno in apparenza». Un suo consiglio? «Non pensi a nulla mentre lavora. Pensi soltanto che sta facendo un capolavoro L'arte è una malattia, sa. Bisogna sostenerla con la febbre». In via Mazzini si ostina a resistere alla corte dei collezionisti il capolavoro di Casorati, «Silvana Cenni», la ((virgo metaphysica millenovecentoventidue», secondo Italo Cremona. Sul fondo della tempera, il Monte dei Cappuccini, una sosta lungo la strada che conduce alle «dignitose colline di Pavarolo». Pavarolo, un paese non lontano da Chieri, dove Casorati acquistò nel 1930, l'anno del matrimonio con Daphne Maugham, la casa di campagna. «Finalmente - è un passo autobiografico - io e le mie donne (la madre e le sorelle, ndr) usciamo dalla vecchia casa perennemente fasciata di ombre e ci appartiamo a Pavarolo nella casetta bianca modesta modesta da cui non riuscivamo mai a togliere l'odor di fieno e di stalla... Questa era la medicina mentis che invano avevo per tanto tempo cercata...». Per raggiungere piazza Vittorio, dove aspettava la corriera diretta a Pavarolo, Casorati attraversava via Cavour (uno sguardo alla casa di Alfredo Casella, un «grande» ritratto dal Maestro: «Casorati - epigramniò Noventa -, el bel Casorati - el pitor de le clone e dei grandi»); sostava in piazza Maria Teresa, la bomboniera «interpretata» nel 1919; si lasciava alle spalle via dell'Ospedale, ora via Giolitti (al 55 abitava Giacomo Grosso, l'antagonista, «un fotografo», come lo vetrioleggiò l'impulsivo Gobetti). Gobetti (scomaparso giusto settant'anni fa). Casorati. Pavarolo. Ovvero quando a tavola, sotto la pergola - la testimonianza è di Barbara Allason -, Casorati poneva la domanda: «Che sarebbe oggi Gobetti in quest'Italia vinta, dilaniata e prostrata, nave senza nocchiero in gran tempesta? Non sarebbe stato egli forse 0 nocchiero?». Quindi, a sera, il ritorno a Torino, in corriera, «passando per Superga. Ansando un poco, la grossa macchina...». Bruno Quaranta
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