«le mani di Riina su chi faceva le leggi»

Il pentito Cancemi rivela: ci disse che poteva condizionare a nostro favore persone importanti Il pentito Cancemi rivela: ci disse che poteva condizionare a nostro favore persone importanti «le munì di Riinu su chi faceva le leggi» E l'agente soft 'accusa: non ho mai tradito Falcone PALERMO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Mentre fa sensazione il caso del poliziotto che faceva parte della scorta di Giovanni Falcone e che è stato accusato di esser stato una «talpa» dei boss, nell'aula bunker del carcere di Rebibbia il pentito Salvatore Cancemi, che ha confessato da tempo di aver partecipato alla strage di Capaci, ha rivelato ieri che Cosa Nostra contava su persone importanti, in grado di «fare le leggi». E a Palermo un altro pentito di rango, Francesco Marino Mannoia, a cui la mafia ha sterminato la famiglia, sempre ieri, nel processo «Golden Market», ha parlato in teleconferenza di due penalisti, Carmelo Cordaro e Marco Clementi, e del chirurgo Maurizio Romano come di «gente che se l'intendeva con mafiosi». Il leitmotiv delle complicità (vere o presunte) in questura, in Parlamento, a Palazzo di Giustizia e tra i medici ripropone così il problema della credibilità da attribuire ai pentiti e, contemporaneamente, quello dei percorsi attraverso i quali la Piovra è riuscita ad ottenere i più disparati appoggi. Michele Condipodaro, 34 anni, il poliziotto arrestato venerdì, è stato interrogato a lungo ieri. Ha giurato di essere innocente e ha respinto l'accusa che gli è stata rivolta dal pentito Aurelio Neri che, nel chiamarlo in causa, ha confessato di aver partecipato all'uccisione di suo nipote, Rosario Alaimo, confidente della polizia. E che Alaimo fosse un «canterino» l'avrebbe riferito proprio Condipodaro. Dopo i primi riscontri incrociati, ad ogni modo, la posizio- ne dell'agente, che per sette mesi, fino al 20 agosto 1990, fu uno degli «angeli custodi» di Falcone, sembra essersi alleggerita, anche se di poco. Infatti, il gip Renato Grillo ha convalidato l'imputazione di favoreggiamento personale aggravato, ma non quella di concorso in associazione mafiosa che il pm Maurizio De Lucia aveva ugualmente sollecitato. In gran segreto, quindi, è seguito il trasferimento nel carcere militare di Roma, Forte Boccea. Alla questura di Palermo il trauma è stato forte, specialmente tra gli agenti del «servizio scorte» addetti alla protezione di magistrati e di numerose altre personalità, possibili bersagli della mafia. A loro si sono ispirati numerosi sceneg- giatori di cinema e tv, segno che sono ormai entrati a buon diritto nell'immaginario collettivo di questi nostri anni difficili. Uno di loro, ieri, pretendendo l'anonimato, ha affermato: «Non vorrei che il nome del dottor Falcone per la sua risonanza servisse per fare qualche "scoop"». Come dire: attenzione a evitare di travolgere Condipodaro solo perché il suo nome ha potuto essere accostato al giudice antimafia per antonomasia, assassinato a Capaci. Fatto sta che le indagini procedono e oltre all'arresto di Vincenzo. Passafiume l'inchiesta sul delitto Alaimo vede coinvolto anche il tunisino Ali Bughassa, proprietario del ristorante «Il cammello», che viene attivamente ricercato. Quanto alle rivelazioni di Cancemi, a Rebibbia il pentito ha dichiarato: «Dopo l'arresto di Riina parlai con Provenzano [il boss corleonese latitante da 30 anni] per le preoccupazioni che noi avevamo per il 41 bis [il regime carcerario duro] e i pentiti. Lui mi disse di non preoccuparmi». Cancemi ha aggiunto che Provenzano gli specificò: «Siamo a buon punto, abbiamo tra le mani persone che non ci abbandonano, abbiamo la possibilità di sfruttare le leggi». Antonio Ravidà E' stato trasferito nel carcere militare di Roma I dubbi dei colleghi «Cambieranno le norme sul carcere duro» Ora l'imputazione è di favoreggiamento Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti della scorta di Giovanni Falcone (sopra) e a fianco il film «La scorta»

Luoghi citati: Capaci, Falcone, Palermo, Riinu, Roma