Sodoma, stravagante ma non licenzioso

Sodoma, stravagante ma non licenzioso Un saggio ripropone i fasti del pittore rinascimentale caduto in disgrazia per colpa del Vasari Sodoma, stravagante ma non licenzioso EE si passeggia a Milano, fra le vie intitolate ai cosiddetti pittori leonardeschi, nessuno, giunto nella pudica piazza Giov. Ant. Bazzi, potrà sospettare che sotto quell'educata dizione si nasconda il celebre pittore senese Sodoma. Un'identità storica cancellata per ipocrisia. Ma allora ci si può domandare come mai, nell'Italia che si avviava alla Controriforma e che puniva quel «vizio» con feroci condanne, un celebrato artista, vezzeggiato da corti e Papi, potesse aggirarsi con qnel nomignolo, e starsene mesi tra frati e conversi nel Monastero di Monte Oliveto, a completare il ciclo di affreschi del Signorelli, senza sollevare nessun allarme moralistico. Non se lo pone, apparentemente, questo problema, Roberto Bartalini che ha dedicato al pittore un singolare saggio che sta per vedere la luce presso Donzelli dal titolo Le occasioni del Sodoma. Questo giovane storico della Normale di Pisa, che si dichiara «insofferente verso un genere accreditato come la monografia» e contrario alla «falsa autorità di specialisti di una sola cosa», preferisce proporre una sorta di «microsociologia dell'arte», curiosamente procedendo a ritroso nella carriera del Sodoma ed investigando le sue occasioni e i fasti. Fermiamoci noi un attimo su quel singolare soprannome, che pure gli provocò non pochi guai. Per esempio quando, patito com'era dei palii e vinto quello di San Barnaba, a dei fanciulli esultanti che gli chiesero «che nome si aveva gridare et avendo egli risposto "Soddoma, Soddoma" i fanciulli così gridavano. Ma avendo udito così sporco nome certi vecchi da bene, cominciarono a farne rumore et a dire: "Che porca cosa, che ribalderia è questa che si gridi per la nostra città così vituperoso nome?". Di maniera che mancò poco, levandosi il rumore, che non fu dai fanciulli e dalla plebe lapidato il povero Soddoma, il cavallo e la bertuccia che aveva in groppa con esso lui». Questo per lo meno racconta il Vasari, che nelle sue Vite s'impegna a ricoprire di insulti e di calunnie il meschino pittore, ribattezzato anche «il Mattaccio». Mentre D medi- co e cultore d'arte Giulio Mancini assicura ch'era di moda allora che molti «ancorché gentilhuomini di prima purezza» si divertissero a rintuzzarsi «lo Stordito, il Sodo, l'Arsiccio, et altri soprannomi più bassi e sozzi», come per gioco. Ed Enzo Carli, oltre a ricordarci che spesso si firmava anche Sodone, Sodanus, Sogdona, senza nessun accenno a quella dedizione, avanza che Sodoma deriverebbe dal toscanizzarsi del suo intercalare vercellese di «su 'nduma», ovvero «su andiamo»; od anche «so doma», io so domare, con riferimento alla sua mania dei palii. Quello che interessa ùivece a Bartalini - attraverso la figura censurata, rimossa del Sodoma - è studiare la mutazione che avviene tra la prima e la seconda edizione delle Vite del Vasari, che nel 1568, divenuto regista della politica cortigiana dei Medici, vuole incarnare e difendere non più la figura dell'artista stravagante e saturnino, artigiano succubo dei venti e dei furori incontrollati della melancolia, ma un nuovo prototipo d'intellettuale moderno, artista che deve mostrare spirito imprenditoriale ed «essere dolcissimo e molto cortese amico, di piacevole conversazione et in tutti i suoi affari molto onorato, liberale et amorevole delle sue cose e di natura quieto». Esattamente il contrario del Sodoma, che «stratto, licenzioso, senza pensieri, stracurato, infingardo» diventa il bersaglio primo dell'attacco di Vasari, che ammetteva di «esser fra il numero di quelli che per le loro virtuosissime opere haimo avuto le pensioni, i piombi e gli altri onorati premii» e che programmaticamente gli preferisce il contraltare più rassicurante del Beccafumi, «che vivendo cristianamente stava il più tempo da solitario». Ma una cosa è certa: ad un tratto la figura celebrata del Sodoma, l'allievo d'«avanguardia» di Martino Spanzotti, che aveva portato in tutt'Italia la lezione milanese di quelle «figure di pathos» (Warburg) desunte da Zenale e Leonardo e Bramantino e messe a battaglia con le soffuse pastosità fiorentine di Fra Bartolomeo, l'artista venerato dal Papa della Rovere e chiamato a Roma da Agostino Chigi per decorare la Farnesina accanto a Raffaello, entra in crisi e la sua figura si decolora. Se Giovio ne aveva fatto l'unico possibile erede di Raffaello (che lo ritrasse nella Scuola d'Atene e «che era la stessa bontà e modestia e lasciò in piedi tutto quello che aveva fatto il Mattaccio», senza distruggere i precedenti affreschi, come ci ricorda con una punta di stizza il Vasari), se il Peruzzi «non aveva mai veduto niuno esprimer meglio gli affetti di persone tramortite o svenute, né più simili al vero», già al tempo della Galena del Cavaher Marino il suo nome era svaluto. Ma certo i motivi non erano così moralistici, come ci vuol far credere il Vasari, che lo trasfigura in una sorta di Pacciani del Manierismo (con la moglie che non lo vuole più, nonostante i «trenta figliuol grandi» cioè soprawissutil e che con gioia lo intravede lavorare come un sopravvissuto tra Volterra e Pisa «condotto pazzamente nella vecclùezza a stentare miseramente, colla buona sorte, e forse cattiva» di non avere concorrenza: «il che se bene gli fu di qualche utile, gli fu alla fine di danno, per che quasi adormentandolo non istudiò mai, ma lavorò le più cose per pratica». «Era molto aiutato dalla natura», ci ripete come un preside ammorbante: e se «avesse atteso in quella disdetta di fortuna agli studi, avrebbe dato grandi frutti. Ma egli ebbe sempre l'animo alle baie e lavorò a capricci, di nuina cosa maggiormente curandosi che di vestire pomposamente, portando giuboni di bracato, cappe tutte fregiate di tela d'oro, cuffione ricchissime, collane et altre simili bagattelle e cose da buffoni e cantanbanchi». E' l'ostentazione della stravaganza che il cortigiano Vasari non sopporta più e moralisticamente si tradisce: «Era licenzioso e teneva altrui in piacere e spasso con vivere poco onestamente; nel che fare, però che aveva sempre attorno fanciulli e giovani sbarbati, i quali amava fuori di modo, si acquisto il soprannome di Soddoma, del quale nonché si prendesse noia o sdegno, se ne gloriava». Meglio il casto Mecarino, quel Beccafumi che in Siena aveva cominciato a bruciare le sue figure d'incenso, con stile languido e contrito. Marco Vailora Resta il mistero del soprannome: che non si riferiva alla sua sessualità Qui a sinistra, il Martirio di San Sebastiano del Sodoma; in alto l'Estasi di Santa Caterina

Luoghi citati: Atene, Italia, Milano, Pisa, Roma, Siena, Volterra