Fra i dannati dell'atomo

Fra i dannati dell'atomo La gente rassegnata torna a abitare e lavorare nella zona contaminata Fra i dannati dell'atomo Cernobil, vivere con le radiazioni A DIECI ANNI DALLA CATASTROFE CERNOBIL DAL NOSTRO INVIATO Il display luminoso di un contatore Geiger lampeggia sul frontone del palazzo amministrativo della centrale di Cernobil: 58-60 microroentgen all'ora. Decine di persone entrano ed escono dal portone di vetro, nelle loro divise carta da zucchero. Nessuno guarda in alto. Per loro è la nonna, da dieci anni. Ma non è la norma. La radioattività di fondo, normale, è tre volte inferiore. «Stia tranquillo, siamo comunque dentro le nonne di sicurezza. Se anche lei stesse qui un anno intero non raggiungerebbe il limite di sicurezza di 5 Roentgen all'anno». E' il mio angelo custode che parla. La centrale incombe con la sua mole immensa, la selva dei tralicci elettrici nereggia al di là del canale di raffreddamento. Energia che parte per destinazioni lontane, ricchezza: 230 milioni di dollari all'anno. Il «Sarcofago» è imo scarafaggio nero, alto 70 metri, acquattato per sempre in mezzo a quella che un tempo fu una palude. Lo chiamano «la tomba», ed è vero. La dentro, al momento dello scoppio, rimase un cadavere che nessuno potè mai recuperare. Nessuno, salvo Cheope, ebbe una tomba più grande, nei secoli dei secoli. Tomba radioattiva e misteriosa. Alla centrale si ammette che nei suoi immediati dintorni la radioattività è significativamente più alta. Nessuno si avvicina, infatti. Il filo spinato luccica al sole pallido e la torre metallica che svolge i lavori di manutenzione è manovrata a distanza, elettronicamente. L'autista, in tuta mimetica come quasi tutti quelli che lavorano nella zona maledetta, borbotta qualcosa. Che cosa dice? «Dico che quelli che vanno a verniciarlo si beccano trenta Roentgen in venti minuti. Ma anche 600 dollari all'ora». Tutto attorno è desolazione assoluta. Gruppi di «stalker» vagano con le vanghe a raccogliere zolle di terra. Altri, stivali di gomma, colletti blu, raccolgono i pezzi di carta nei campi. Movimenti e percorsi di cui pochi conoscono il significato. Il mostruoso «picnic sul ciglio della strada» di qualche strana civiltà extraterrestre, immaginato dal fratelli Strugatskij tanti anni fa, quando Cernobil era ancora soltanto un villaggio ucraino, ha creato una «zona» di luoghi assurdi, inspiegabili. A due chilometri si ergono le case di Pripiat, la città morta. Ci abitavano in 46.000. Furono evacuati tutti nello spazio di tre giorni. Lasciarono tutto com'era, mobili, suppellettili, lenzuola. Le tendine sventolano ancora a qualche finestra, dieci anni dopo. Il tempo, il vento, hanno logorato gli infissi. Gli sciacalli, incuranti della radioattività, hanno rotto qualche vetro, sfondato qualche porta, finché è arrivata la polizia e ha portato via tutto. Ma anche i poliziotti avevano paura. Così hanno circondato la città morta col filo spinato e hanno smesso di andarci, se non per portare via i cadaveri dei cani, delle bestie che trovano rifugio nelle case a qiùndici piani dilavate dalla pioggia. Il palazzo della cultura inalbera ancora il suo nome: «Energhetik». Il cinema cittadino si chiama ancora «Prometeo», ma è frequentato solo dai fan- tasmi, come la via Lenin, che nessuno si è preoccupato di ribattezzare. Entrare a Pripiat si può, ma solo per pochi minuti e con l'avvertenza sempre ripetuta: non uscire dall'asfalto perché fuori «è sporco». Sporco vuol dire radioattivo, sporco vuol dire minaccia, sporco vuol dire sub¬ dolo, perché la minaccia non si vede e non perdona. Sui binari arrugginiti della stazione sono ancora fermi due convogli arrugginiti, motrice e vagoni. Panche senza passeggeri, arrugginite, scambi arrugginiti, fili che pendono arrugginiti. Tutto immobile come in un dagherrotipo color seppia prolungato fin qui dal secolo scorso. Eppure sono passati soltanto dieci anni da quel 25 aprile in cui il quarto blocco della centrale atomica di Cernobil saltò in aria. Sul profilo livellato della pianura, vista dalla città morta di Pripiat, la centrale sembra un cantiere ancora in crescita, irto delle torri metalliche per le costruzioni edilizie, cosparso dei grandi ponti mobili dei cantieri. Il sarcofago manda barbagli metallici neri e argento. Quando esplose il quarto blocco stavano costruendo già il quinto e il sesto. Tutto è rimasto immobile com'era quella notte. Non si poteva, né valeva la pena, toccare niente. Ecco cosa colpisce soprattutto. Questo rigor mortis che sembra aver pietrificato non tanto gli uomini quanto le cose, i manufatti, la stessa natura. E' un'impressione che si ripete a ogni scorcio, a ogni curva della strada che da Cernobil porta alla centrale e a Pripiat. Dentro la zona di esclusione dei 30 chilometri, dentro la zona maledetta, gli uomini si muovono in un paesaggio di vetro fuso. E si muovono per davvero. Mi aspettavo di trovare Cernobil deserta come Pripiat. Invece a Cernobil la vita ferve. E' solo apparenza, ma ferve. Ci sono perfino gli operai che asfaltano uno strada. Cosa facciano gli altri non è ben chiaro. Sono i «liquidatori», gli «stalker» abilitati a venire nella zona e ad andarsene al tramonto. C'è una quantità di cose da fare, esperimenti sulle colture, accompagnamenti di scienziati che vengono a studiare, di turisti che vengono a provare emozioni forti, di giornalisti che vengono per raccontare. Ma se guardi in alto vedi che i nidi delle cornacchie affollano le cime degli ontani. Troppi nidi per un villaggio vivo. Ai confini della «zona», nell'altra città di prefabbricati di Selionnaja Mis, c'è perfino un alberghetto per gli ospiti stranieri. Valuta pregiata che arriva come infimo risarcimento postumo, elemosina come scarto di produzione della tragedia. Lungo la strada si vedono altri rari viandanti, anch'essi a prima vista inspiegabili. Ma la spiegazione c'è. Qualcuno è tornato in questi dieci anni. Quelli che non sapevano dove andare, quelli che non hanno avuto le case rase al suolo dai bulldozer dei liquidatori. Decine di villaggi sono stati semplicemente abbandonati, ma nessuno ha avuto il tempo e la voglia di distruggerli. Sono stati «seppelliti» solo quei luoghi dove la radiazione era troppo pericolosa. Quanti sono questi «reduci» che «scelgono» di convivere con la radiazione semplicemente perché non hanno altra scelta, oppure perché non vedono la ragione eh scegliere? Si avverte un senso di fatalità inesorabile. Chiudere quella centrale, anche gli ultimi due reattori che ancora marciano a tutto regime, hi perfetta efficienza? Ma chiudere i reattori non significa chiudere il problema. Chi resterebbe a guardare il sarcofago? Chi vigilerebbe sugli impianti radioattivi? E chi troverà il denaro per tutto questo? Per sostituire Cernobil e produrle altrettanta energia per l'Ucraina, che non ha neanche il fazzoletto per asciugarsi le lacrime? Questa Pompei moderna e indelebile sembra destinata a restare come lezione per tutti, per sempre. Giuliette- Chiesa Un addetto: «Certo si muore ma per riparare la copertura ci danno 600 dollari l'ora» Tre immagini della centrale nucleare di Cernobil a dieci anni dalla catastrofe e, a sinistra in alto, il presidente dell'Ucraina Leonid Kuchma |FOTO ANSA]

Persone citate: Geiger, Leonid Kuchma, Roentgen

Luoghi citati: Pompei, Ucraina