Gadamer un senso non troppo comune

DISCUSSIONE. Si conclude un'opera fondamentale DISCUSSIONE. Si conclude un'opera fondamentale Gadamer, un senso non troppo comune In occasione della pubblicazione del libro «Verità e metodo 2» di Hans-Georg Gadamer (a cura di R. Dottori, edito Bompiani), si tiene oggi a Torino, presso la Fondazione Guzzo in via Po 18, alle ore 15, a cura del dipartimento di Ermeneutica filosofica dell'Università, un colloquio su «L'ermeneutica dopo Gadamer». Vi partecipano, oltre a Dottori, Jean Grondin, Maurizio Ferraris, Gianni Vattimo. fu IADAMER ha da poco I i compiuto novantasei anI _ ili, e trentasei ne compie I ¥ I la sua opera più nota, «Vela? Irità e metodo», che fu pubblicata nel 1960. Questo secondo volume che ora vede la luce in italiano è in realtà una raccolta di scritti sia (alcuni) precedenti, sia, i più, successivi all'opera maggiore, che sono rilevanti o per comprenderne la preparazione o per seguirne gli sviluppi, nel lavoro di Gadamer e anche nella vasta discussione che, in questi decenni, l'ha reso popolare e ha fatto dell'ermeneutica un vero e proprio idioma comune del pensiero contemporaneo. Nel grande libro del 1960 (pubblicato anch'esso in italiano da Bompiani), Gadamer poneva le basi della filosofia dell'interpretazione offrendo una personale rielaborazione soprattutto del pensiero di Heidegger. Jùrgen Habermas ha parlato a questo proposito di una «urbanizzazione della provincia heideggeriana»: in effetti, Gadamer è stato determinante nel far comprendere agli studiosi di filosofia il senso delle opere del cosiddetto «secondo Heidegger», quello che si era lasciato alle spalle molti aspetti dell'originario esistenzialismo e aveva inteso fondare una filosofia dell'essere concepito come evento di linguaggio. E' attraverso Gadamer, per esempio, che è diventato possibile aprire una comunicazione tra la filosofia heideggeriana e quella di impianto analiticolinguistico dominante nel mondo anglosassone. Si può pensare ed esercitare la filosofia essenzialmente, o anche esclusivamente, come analisi del linguaggio - come vogliono gli eredi di Wittgenstein - anche e soprattutto perché l'essere (come dice Heidegger) non si dà se non come linguaggio. L'ermeneutica gadameriana è tutta una grande variazione su questo tema, riassunto nella famosa sentenza di «Verità e metodo» secondo cui «l'essere che può venir compreso è linguaggio». Ciò, in termini generalissimi, significa che noi facciamo esperienza del mondo e di noi stessi solo entro la cornice di un linguaggio che ereditiamo e che è la condizione di possibilità di ogni nostro accesso alle cose; le quali, dunque, «vengono all'essere», in quanto disponiamo di una lingua che ci permette di parlarne. Poiché ci condiziona in questo modo radicale, il linguaggio non solo è parlato da noi, ma anche «ci» parla, non lo possiamo trascendere e piegare come se fosse un semplice strumento. Per cogliere la novità di questa posizione - che prima che di Gadamer è di Heidegger - bisogna tener presente che il linguaggio che ereditiamo è interamente storico; non rispecchia strutture eterne della ragione, come ancora pensava Kant. La verità non potrà così essere la descrizione oggettiva (non segnata da un punto di vista particolare) delle cose, come ha sempre preteso il metodologismo scientifico, che nella modernità è coinciso con le scienze matematiche della natura. Il titolo dell'opera di Gadamer, come è stato osservato, ha un senso «polemico»: essa intende infatti mostrare (a partire da un'analisi dell'esperienza di verità che facciamo nell'arte, e poi in tutto l'ambito delle cosiddette «scienze dello spirito») che il vero non è legato necessariamente all'applicazione del metodo scientifico. Se di verità si può parlare, questa si dà solo come continuità logica con un certo orizzonte storico-concreto entro il quale ogni punto di vista sul mondo è già sempre collocato. Non si tratta necessariamente di relativismo; ma, come dice Gadamer vedendo in questo uno dei significati più decisivi dello stesso pensiero di Platone, la sapienza è sempre soltanto dialettica, tensione verso una unità suprema che la mente finita non raggiunge mai; la ragione però non è priva di guida: quello che la tradizione filosofica ha chiamato il logos, la ragione, è anzitutto, secondo il senso etimologico della parola, il discorso umano che si tramanda e che «regge» l'esperienza vissuta del mondo. C'è qui anche una rivalutazione del «senso comune», certo; ma un pensiero ermeneutico serio sfugge alla banalizzazione e al conformismo in quanto non si ferma alla superficie del senso comune, ne mobilita le profonde e molteplici radici storiche che, molto spesso, si rivelano capaci di metterne in crisi le attuali, troppo rigide, certezze. E' questa forza del logos ciò che Gadamer oppone, nei saggi di una delle sezioni più significative del secondo volume di «Ve¬ rità e metodo», al decostruzionismo di Jacques Derrida, che peraltro rappresenta anche una delle direzioni principali in cui l'ermeneutica si è sviluppata sulla traccia di Heidegger e di Gadamer stesso. Il rapporto con il decostruzionismo non è forse il principale problema aperto nel dibattito attuale dell'ermeneutica; come si vede dalle diverse sezioni del libro curato da Dottori, almeno altre due dimensioni appaiono decisive e dense di possibili sviluppi, che Gadamer ha ampiamente preparato in numerosi scritti degli Anni Settanta e Ottanta: la dimensione etica (il logos-coscienza comune che rende possibile il nostro accesso al mondo contiene anche indicazioni normative per le scelte pratiche); il rapporto con le scienze positive, che il primo volume sembrava configurare come troppo esclusivamente polemico, e che invece in questi saggi tende a collocarsi in una luce diversa, anche in conseguenza della consapevolezza della radicale storicità della scienza sviluppatasi nel frattempo nella stessa epistemologia (si pensa ovviamente a Thomas Kuhn), ma già chiaramente presente in Popper. Come nel caso del logos o «senso comune», di cui Gadamer ci invita a scoprire le profondità nascoste facendone un principio di critica del presente, forse anche nel caso della sua ermeneutica, divenuta idioma condiviso della nostra cultura, il compito a cui il pensiero di oggi è chiamato è quello di non lasciarsene imporre una immagine troppo pacifica e ovvia, mobilitando le feconde tensioni che la percorrono e la rendono ricca di futuro. Gianni Vattimo Dopo 30 anni il filosofo rielabora «Verità e metodo»: l'ermeneutica cuore del pensiero contemporaneo nostro accesso alle cose; le quali, dunque, «vengono all'essere», in quanto disponiamo di una lingua che ci permette di parlarne. Poiché ci condiziona in questo modo radicale, il linguaggio non solo è parlato da noi, ma anche «ci» parla, non lo possiamo trascendere e piegare come se fosse un semplice strumento. Per cogliere la novità di questa posizione - che prima che di Gadamer è di Heidegger - bisogna tener presente che il linguaggio che ereditiamo è interamente storico; non rispecchia strutture eterne della ragione, come ancora pensava Kant. La verità non potrà così essere la descrizione oggettiva (non segnata da un punto di vista particolare) delle cose, come ha sempre preteso il In basso, il filosofo Hans Georg Gadamer; a sinistra, Martin Heidegger; a destra, Jacques Derrida

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