La leggenda di un «maledetto»

La leggenda di un «maledetto» UN UOMO CONTRO La leggenda di un «maledetto» Nei suoi gesti il malessere di tanti Zelig E m ROMA * dunque morto, a 41 anni, Mario Appignani. E almeno per chi crede, o per chi si sforza di credere, c'è qualche ragionevole speranza che sia già in Paradiso, «Cavallo Pazzo», avendo senz'altro vissuto il suo Inferno quaggiù, in questa Roma capricciosa e disperata, comunque avara di ricompense misericordiose. E non sembri, davvero, una frase fatta, o un omaggio postumo e di circostanza. Proprio Un ragazzo all'Inferno, con una bellissima prefazione di Marco Pannella, s'intitolava la precoce autobiografia uscita nel 1975 a firma di Appignani. Cui da allora piacque sempre qualificarsi «scrittore», con un soprassalto d'orgoglio, quando chiedeva cinquemila lire per strada o veniva pestato dentro un'auto della polizia; mentre si faceva una pera con altri disgraziati o a braccetto dell'onorevole Bubbico; abbarbicato sui parapetti di ponte Sant'Angelo, per un improbabile suicidio, o nudo sul palco di qualche comizio dov'era misteriosamente riuscito a salire, povero Zelig casarec- ciò, ma vero, condannato a farsi trapassare dal raggio laser della popolarità: quale che fosse. In quel libro raccontava l'infanzia desolata del trovatello in giro per istituti e quindi affidato, a proposito di inferni, alle cure di Maria Diletta Pagliuca. E poi la fame, le violenze, anche sessuali, le marchette, la galera (dove aveva fatto amicizia con l'ungherese martellatore della Pietà di Michelangelo), l'incontro con don Picchi, e quindi con Pannella. In realtà non era, o non era solo uno «scrittore», ma un portato vivente e per certi versi forse addirittura l'incarnazione simbolica del malessere di quell'Italia che giusto in quegli anni andava scoprendo le risorse e i cortocircuiti dei media. Fin da allora, Appignani intuì d'istinto le une e gli altri, e si rese lui stesso notizia, in un reciproco scambio di squilibri. Appena sfiorato dal successo, come in un'atavica rappresentazione pulcinellesca, lo beccarono in un ristorante di Ascoli Piceno, dopo un pranzo colossale, con un assegno a vuoto, o falso, o rubato, o chissà che. Non era esattamente un personaggio - o un militante - comodo e affidabile. Rompeva e s'agitava così tanto che a un certo punto, nella vecchia e pur apertissima sede radicale, compar¬ ve un cartello: «Vietato l'ingresso ad Appignani». Si mise allora a girare, sempre temutissimo da portieri e fattorini, per le redazioni dei giornali. Faceva adibitali di fotocopie, telefonava al ministro dell'Interno, rapinava giacche (ma restituiva i documenti), aiutava a ritrovare quadri rubati. Il delitto Pasolini, con il conseguente bisogno di ricostruzioni più o meno attendibili sui ragazzi di vita, gli offrì l'opportunità di divenire la fonte (segreta) del «complotto». Ritornò nelle redazioni nel Settantasette, ormai con fascetta colorata sulla fronte e nomignolo indiano-metropohtano, per dichiararle «occupate» in nome del Movimento. Stava lì un'oretta, si prendeva una Coca-Cola, faceva due rutti e cambiava giornale. Comprensibilmente incapace di tener testa ai ritmi concitati di «Cavallo Pazzo», l'informazione non poteva dargli più di quanto offrisse il suo scombinatissimo e ossessivo protagonismo mediologico. A quel punto, dopo aver interrotto la presentazione di Masse e potere di Ingrao alla libreria Croce, andò in fissa con la festa del Sole di Machu Piccini e organizzò una colletta per un somalo bruciato vivo dietro piazza Navona. Ma riconosciuto poco dopo, in barracano az¬ zurro, sotto il palco del festival dei Poeti di Castelporziano, venne accusato (e picchiato, ancora una volta) per esserseli giocati, quei soldi, al casinò di Montecarlo. Vai a sapere. Si slanciò comunque in politica, senza confini di partito prese a frequentarla con un'intensità straniante, alternando ricoveri, pseudo-matrimoni, arresti, travestimenti (da ufficiale di Marina), accattonaggio e compravendita di quadri. Nasce allora la leggenda vagabonda di Appignani, quella sua straordinaria ubiquità che per un decennio e più l'ha reso il corrispettivo politico di ciò che era stato a suo tempo «Jimmy il fenomeno» nello spettacolo e «Serafino» per lo sport. Dapprima si appiccicò ai craxiani, e i pur miti guardaportoni di via del Corso avevano l'ordine di mantenerlo sul marciapiedi di fronte. Poi si dedicò, sempre con lunghe attese per strada, al clan di Sbardella, cui promise un busto in marmo. Non c'era comizio, convegno, congresso o via dell'Anima a cui mancasse. Ma nel frattempo, a conferma di quel suo fiuto maniacale per l'evento della cronaca o della tv, si era anche dichiarato figlio di Guttuso, aveva tirato calci al basso ventre di Pippo Baudo, ritagliandosi pure un ruolo d'eccellenza nella tifoseria giallorossa. E' morto giovane e, se si può dire, al momento giusto. Ricordarlo oggi sui giornali è un po' come rimettere un debito di pietà e di mistero. Con i suoi dolorosi salti logici e la sua abbagliante mitomania, Mario Appignani lascia un Paese molto più simile a lui di quanto, forse, possa sembrare a prima vista. Filippo Ceccarelli Si presentava come scrittore ma spesso la polizia l'ha trovato per strada pesto e sanguinante Una delle tante invasioni di campo all'Olimpico

Luoghi citati: Ascoli Piceno, Italia, Montecarlo, Roma