A Beirut, nel mirino dei caccia

B NELLA CITTA' FERITA A Beimi/ nel mirino dei caccia Le bombe fanno fuggire il jet del premier B BEIRUT ENVENUTO a Beyrouth», dice il doganiere del banco dei passaporti. E mette il timbro. Parla un buon francese, è poco più di un ragazzo. ((Lei è il milionesimo giornalista che sbarca in Libano», aggiunge. Si chiama Abid Daher, viene dal Nord. E sorride con i denti bianchi. Beh, se qui sfottono così, non deve poi essere tanto brutta. Allora gli chiedo l'età, dopo il nome. «Ventiquattro anni», dice; «perché?». Perché la prima volta che sono venuto qui a raccontare la guerra lui quasi non era nato, gli dico con qualche severità di troppo. E allora lui si fa rosso e non ride più. La guerra qui ha accompagnato la storia del mondo di ognuno, e se fai magari per esorcizzarla lei però poi ti torna subito addosso. (E' così dappertutto, in Medio Oriente, e sarà così fin quando finalmente israeliani e arabi non faranno una pace). La guerra del Libano è durata quanto tutta la vita di Adib. Poi, ora che sembrava che fosse finita, ecco che ricomincia. L'aereo della Mea (vuoto, o quasi) arriva infatti all'aeroporto che i bombardieri israeliani sono passati da poco. Andavano a sganciare a Sud, verso la periferia di Beirut, dopo Burj el Barajin. Stavolta a noi è andata bene, e i 97 passeggeri prenotati che hanno preferito restarsene in Itaha forse si sono sbagliati. Gli è comunque andata peggio al primo ministro Rafie Hariri, che stava atterrando proprio mentre passavano i caccia israeliani e il suo jet è dovuto filarsela a Damasco, che come aeroporto è certamente più sicuro anche se meno libanese (ma poi, Libano e Siria sono «una faccia una razza» dice Assad). Beirut è al buio. Di giorno ti pare quella di sempre, il traffico, i rumori che stordiscono, la folla, i venditori delle bancarelle ambulanti. Poi, la notte, tutto si chiude e si torna al passato di sempre. Gli israeliani hanno fatto fuori tre centrali elettriche, e più di mezza città è senza corrente. Per fortuna ci sono ancora i vecchi generatori del tempo della guerra. Li avevano messi da parte, gli ultimi l'anno scorso, perché, poco alla volta, la normalità stava tornando anche in Libano; ora, invece, le bombe gli hanno dato nuova autorevolezza, e chi ne ha mio se lo tiene buono e ci può vedere anche la televisione. Senza nemmeno troppa angoscia, poi, perché questo è un Paese che la guerra l'aveva sepolta nel fondo della memoria, ma non aveva ancora fatto a tempo a dimenticarla. E a ritrovarla non ci ha messo grande sforzo (lo sfottò di Abid vale un trattato di psicologia). Ma Beirut non è tutto il Libano. La gente che arriva da Sud per scappare dalle bombe d'Israele ha facce rotte dalla stanchezza, paura, anche rabbia. La guerra, al Sud c'è davvero; con i morti e le case in rovina, e le strade vuote. Sono trecentomila profughi, un decimo dell'intero Libano, e non sanno che domani potranno avere. I morti di quest'ultima guerra finora sono 38, e 169 i feriti. Non è stata una tragedia, se poi da giovedì a oggi gli israeliani hanno fatto 600 raids e hanno sganciato più di 5 mila bom- be (d'aerei, elicotteri e cannoni). Questi sono comunque numeri di una guerra vera, e a Sud le città e i villaggi rimasti senza quasi più un'anima sono 45. Compresa Tiro, che da sola ha 110 mila abitanti. E' la vecchia storia di questo Libano, dove la schizofrenia racconta una realtà spaccata sempre in due e però vera in entrambe le sue due facce. «Siamo tra il martello israeliano e l'incudine siriana», di- ce un vecchio amico della «France Presse» che ci racconta le ultime notizie per aiutarci a ricostruire un altro giorno difficile. «E' una posizione assai scomoda», e si liscia i baffi bianchi. Il Libano è scomodo da sempre, troppo compbcato, troppo difficile anche per questa parte del pianeta già intricata per conto proprio. La sua scomodità finirà forse U giorno che i siriani avranno potuto pap¬ parselo, con l'assenso generale di chi sta da queste parti o qui comunque ha qualche interesse; e quel giorno non pare poi lontanissimo, se finirà per apparire vero che l'attacco israeliano contro i guerriglieri hezbollah non ha trovato del tutto impreparato il Grande Vecchio di Damasco. «Assad» significa «leone», nel soprannome arabo; chi ha viaggiato in Medio Oriente sa che qui tutti lo traduco¬ no invece come «la volpe». E basta vedere con quanto rispetto lo trattino gli americani, per capire che qui i giochi sono sempre diversi da quello che uno crede di aver capito. I percorsi della pace fanno intanto incontrare a Beirut ministri e diplomatici. C'è il francese de Charette che lavora per un Chirac che si crede de Gaulle e disprezza la troika dell'Unione Europea; c'è l'i¬ raniano Velayati, che è quello che mette i soldi per gli hezbollah e vuole gli israeliani buttati a mare ma teme che il suo vero gioco sia stato scoperto dagli americani; ci sono gli ambasciatori comunitari, guidati dall'italiano, che si dicono preoccupati ma sanno di poter fare ben poco. Siamo insomma di nuovo nel vecchio pantano libanese, quello che dal 75 ha seguitato a essere sempre uguale; ur. dannato luogo dove la guerra si fa per interposto personale di truppa e chi paga sono soltanto i poveracci che debbono scappar via dalle proprie case. Intanto, dei 38 morti pare che uno soltanto fosse un hezbollah: ma è mai possibile che la potente arma da guerra israeliana abbia scatenalo tutto questo inferno di bombe e di lacrime per ottenere un morto soltanto? Il Medio Oriente non è mai quello che sembra, la verità vera sta sempre nascosta sotto. Mimmo Candito X Chi arriva dal Sud ha il volto jj indurito della paura 1 Mezza capitale è U senza luce, tornano § i generatori del tempo di guerra La gente si sfoga «Siamo tra il martello israeliano e l'incudine siriana» X A sinistra le macerie di una casa distrutta dagli israeliani nel campo di Ein el Hemweb Qui accanto la centrale elettrica di Beirut distrutta dagli israeliani A destra, una postazione di artiglieria israeliana al confine libanese

Persone citate: Abid, Assad, Chirac, Mimmo Candito, Rafie Hariri, Velayati