Un tesoro fra le due Cine

N Si trova a Taiwan la più ricca collezione di arte cinese: 700 mila pezzi scampati alla furia delle Guardie rosse, che ora Pechino vorrebbe riavere Un tesoro N ON mi pare che le cronache dei giorni scorsi, richiamando l'attenzione sul destino di Taiwan, abbiano ricordato che le mire della Repubblica popolare cinese sull'isola non sono solo territoriali. Grande oggetto di contesa fra le due Cine è infatti anche un immenso tesoro: il tesoro formato, lungo dieci secoli, dalle raccolte imperiali e ora ricoverato, dopo lunghe peripezie, sotto gli azzurri tetti a pagoda e negli ampi sotterranei del museo di Taipei, la capitale di Taiwan. Se è permessa una concessione al gusto delle classifiche e dei record, si può affermare che questo museo possiede non soltanto la collezione più antica ma anche la più ricca del mondo, contando circa 700 mila tra oggetti e opere d'arte che vengono esposti a rotazione. Tanta ricchezza in un posto periferico, lontano dai grandi centri d'arte, produce nel visitatore un certo senso di spaesamento - peggio che vedere gli Uffizi a Cagliari o il Louvre ad Ajaccio - ma nello stesso tempo il compiacimento di avvicinare incredibili capolavori ancora remoti dagli itinerari del turismo internazionale, anche se arrivano fin qui i pullman degl'indefessi giapponesi e si aggirano ormai sempre più numerosi per le sale gruppi guidati di diverse popolazioni asiatiche. Capolavori irrequieti La storia della collezione del museo di Taipei risale al decimo secolo della nostra era, quando dopo il disfacimento dell'impero Tang e dopo le effimere Cinque Dinastie, una dinastia nuova, i Sung, prese il potere e riunificò il Paese. Gli imperatori Sung furono appassionati collezionisti, mecenati quando non addirittura artisti in proprio, come quel Hui-tsung (1101-1125), specialista in pitture di fiori e di uccelli, che fece compilare i cataloghi delle sue raccolte. Molte delle calligrafie, delle pitture e dei bronzi oggi nel museo di Taipei sono registrati in' quei cataloghi. In Cina, Paese definito ai nostri giorni l'impero immobile, le raccolte imperiali hanno dimostrato un bel po' d'irrequietezza. Nel 1126 barbari del Nord, i Kin, chiamati dall'imperatore Hui-tsung per aiutarsi contro un altro popolo tartaro invasore, s'impadronirono della capitale Sung che era K'aifeng, fecero prigioniero lo stesso imperatore e dispersero le sue collezioni. I Sung ripiegarono nella Cina meridionale e stabilirono la capitale a Hang-chou, dove le collezioni vennero in parte ricomposte e arricchite. I Sung del Sud durarono poco meno di cen tocinquant'anni, poi vennero spazzati via dall'uragano mongolo: conquistata Hang-chou, Khubilai Khan trasportò la capitale a Pechino e le collezioni seguirono. Come seguirono l'andirivieni degli imperatori della successiva dinastia, i Ming, tra Pechino e Nanchino. E a Pechino, tornata capitale, resteranno per 500 anni nella Purpurea città proibita, accessibili solo ai Figli del Cielo, alle loro mogli, concubine e favoriti, mentre acquisti, doni, annessioni e la vita stessa del Palazzo, con gli oggetti dei riti e delle cerimonie, della pompa e del capriccio le arricchivano a dismisura. Trasferimenti e peripezie ripresero nel nostro secolo. Nonostante la proclamazione della Repubblica (1912) il deposto imperatore P'u Yi continuò ad abitare il Palazzo; ne fu espulso solo nel novembre del 1924 e neanche un anno dopo il Museo Nazionale del Palazzo, istituito all'interno della Città Proibita per custodire i tesori imperiali, fu aperto ai visitatori. La parentesi di accessibilità fu breve: dopo l'occupazione della Manciuria da parte dei giapponesi la minaccia di una loro invasione convinse i curatori del Museo a trasferire il te- Nella foto in alto una panoramica del museo di Taipei, che espone a rotazione i suoi tesori soro acollezdei beperialquellodivisanel 19anni d soro al Sud. La gran parte della collezione (accresciuta intanto dei beni di altri due palazzi imperiali, quello estivo di Jehol e quello di caccia di Mukden) fu divisa in cinque lotti e spedita nel 1933 a Shanghai e di qui tre anni dopo a Nanchino che offri¬ va migliori capacità di magazzini. Ma presto un nuovo trasloco s'impose: la guerra col Giappone, scoppiata dopo gl'incidenti sul ponte Marco Polo nel luglio 1937, metteva in pericolo la Cina centrale e di nuovo s'impose un trasferimento verso l'interno, stavolta, verso le roccaforti del Kuomintang di Chiang Kaishek. I possenti vasi sacri di bronzo, Chou e Shang, le porcellane, i dipinti su seta o su carta, le giade, le lacche, gl'intagli, gli avori, i libri rari o le opere sterminate - come il Ssu-K'u ch'ùan shu, impresa bibliografica in 36.358 volumi - e, anche i ninnoli e le carabattole di una corte raffinatissima ma, insomma, la parte più cospicua e più scelta dell'eredità culturale e artistica di un Paese millenario imballata in migliaia e migliaia di casse fu esposta alle traversie di un epico trasloco. Finita la guerra le collezioni del Palazzo furono riportate a Nanchino, sede del governo nazionalista e, in parte, esposte. Ma non erano finite le loro vicende. Quando apparve inevitabile la vittoria dei comunisti, molti degli stessi esperti del Museo che quindici anni prima avevano scelto e imballato gli oggetti per sottrarli ai giapponesi tornarono all'opera. La selezione fu più accurata e il viaggio meno fortunoso. Le collezioni del Palazzo approdarono a Taiwan, a seguito del Kuomintang, nel 1949 e, finché durarono le speranze dei nazionalisti d'un prossimo vittorioso ritorno sulla terraferma, rimasero immagazzinate, pronte al reimbarco. Molto più tardi, sfumate le speranze, fu decisa la costruzione del Museo, terminata nel 1965. Se si pensa a tutto l'imballare e sballare, alle difficoltà dei trasporti d'allora, ai bombardamenti giapponesi appare veramente miracoloso che salvo poche perdite gli oggetti delle collezioni imperiali siano sani e salvi in un museo. Tanto più che, tranne i vasi di bronzo, sono oggetti molto fragili che, anzi, dalla sfidata fragilità traggono spesso molto del loro fascino. Nella storia antichissima dei predamenti d'opere d'arte, è questo uno dei rari casi, se non l'unico, in cui i vinti ebbero la meglio sui vincitori i quali, rimasti con pochi scarti nel vuotato palazzo, strillarono subito al ladro. All'accusa i cinesi di Taiwan fecero da sordi fin tanto che l'iconoclastia delle Guardie rosse, forsennata ma non nuova nella storia cinese, non gli forni una bella giustificazione a posteriori. Che viene oggi esibita ai visitatori, nell'atrio del Museo, sotto forma di un cartello, col quale s'informa che le collezioni imperiali furono portate a Taiwan salvandole con ciò dalla furia della rivoluzione culturale. Strumenti della diplomazia Non per questo, naturalmente, cessarono le rivendicazioni della Repubblica popolare che son tornate a farsi più energiche che mai in questi ultimi mesi di tensione tra le due Cine. A rinfocolarle, oltre agli altri motivi, c'è stato il progetto di una grande esposizione dei «tesori» del museo di Taiwan in alcune città americane. Non è la prima volta che esposizioni d'arte diventano strumenti della diplomazia e questa mostra rientra certamente in quella articolata ricerca di rinnovati, più stretti rapporti con gli Stati Uniti che Taiwan persegue e che Pechino vede come il fumo negli occhi. Ma nonostante le accuse della Cina popolare a Taiwan di strumentalizzare l'arte e le minacce di chiedere a un tribunale americano la restituzione delle opere una volta giunte negli Stati Uniti, la mostra si è aperta il 12 marzo al Metropolitan di New York e andrà poi a Chicago, San Francisco e Washington. Anche se priva di alcuni grandi, fragili capolavori del periodo Sung previsti nel progetto ma ritirati su pressione dell'opinione pubblica di Taiwan, essa rappresenta la più vasta e importante rassegna d'arte cinese che sia mai stata esibita in Occidente. Mario Spagnol Infinite vicissitudini poi l'approdo a Taipei con il Kuomintang Una raccolta iniziata mille anni fa dai Sung imperatori-mecenati Possenti vasi sacri di bronzo, porcellane, giade, lacche, avori, dipinti su seta e su carta Adesso le opere sono in mostra a New York: così si rinsalda il rapporto con gli Stati Uniti el museo uoi tesori i bronzo, e, lacche, e su carta soro al Sud. La gran parte della collezione (accresciuta intanto dei beni di altri due palazzi imperiali, quello estivo di Jehol e quello di caccia di Mukden) fu divisa in cinque lotti e spedita nel 1933 a Shanghai e di qui tre anni dopo a Nanchino che offri¬ va migliori capacità di magazzini. Ma presto un nuovo trasloco s'impose: la guerra col Giappone, scoppiata dopo gl'incidenti sul ponte Marco Polo nel luglio 1937, metteva in pericolo la Cina centrale e di nuovo s'imposeQui ae più Adessoa New il rapp Qui a fianco un vaso Ming (XV secolo) e più in alto due fregi della stessa dinastia

Persone citate: Chiang Kaishek, Chou, Khan, Mario Spagnol, Shang