« I nostri sei anni di inferno » di Maria Teresa Martinengo

« « I nostri sei unni di inferno » Le suore raccontano il massacro della Liberia TESTIMONI I GIORNI DELL'ORRORE STORINO ONO provate, al limite delle forze, ma non ferite. Le suore missionarie della Consolata che fino a domenica erano bloccate in Liberia nel povero sobborgo di Matadi, lunedì sono riuscite a raggiungere la capitale a bordo di un'ambulanza. E ieri le quattro religiose (non cinque, come riferito in precedenza: Annarita Brustia si trova a Buchanan) hanno potuto comunicare con suor Agnese Pittaluga, segretaria generale, nella casa generalizia di Roma. «Le nostre consorelle hanno raggiunto il Catholic Hospital di Monrovia, abbandonando la loro casa con quanto avevano addosso» racconta la suora. «Hanno detto che la situazione è davvero bruttissima, ancor più brutta di com'era nel '90». Sei anni fa i guerriglieri del Fronte nazionale patriottico avevano attaccato il dittatore Samuel Doe, difeso dai suoi famigerati pretoriani. In pochi mesi erano morti decine di migliaia di civili. Alla fine del luglio '90, gli innumerevoli massacri quotidiani erano culminati in un eccidio: seicento persone, in maggioranza donne e bambini, scannati dai pretoriani a colpi di mitra e di machete in una chiesa. Colpevoli soltanto di appartenere alle etnie «sbagliate», Giò e Mano. Poco più di due anni dopo nove suore, cinque statunitensi e quattro novizie liberiane, erano state trucidate dagli «scorpioni neri» di Charles Taylor, il nuovo Caudillo, ex collaboratore di quel Doe fatto a pezzi e mangiato. Le religiose erano rimaste a Monrovia per badare a trecento piccoli orfani. Da allora, la mattanza è continuata: clan contro clan, truppe governative contro forze del leader ribelle Roosevelt Johnson. Il solito inferno. Ma da quell'inferno le suore si separano controvoglia perché in tempo di guerra c'è ancor più bisogno di soccorso. «Le nostre missionarie - dice suor Agnese Pittaluga - tenteranno probabilmente di associarsi al piano di evacuazione americano per fermarsi in qualche Paese vicino, in Sierra Leone o Costa d'Avorio: in attesa che la situazione migliori e si possa tornare in Liberia. Noi tendiamo a non abbandonare ' Paesi in cui lavoriamo, se non in condizioni estreme». Nella casa madre delle missio narie della Consolata, a Gruglia sco nella prima cintura di Torino, c'è la «comunità delle reduci», quella che ospita le suore in Italia per un periodo di riposo. Qui da metà marzo si trovano suor Gian na Irene Peano, 57 anni, di Costigliele (Cuneo) e suor Carmen Nava, 57 anni, di Lomagna (Lecco), entrambe infermiere, in Liberia dall'inizio degli Anni 70: la prima in un dispensario-maternità nella capitale, la seconda in un ambulatorio d'emergenza a Buchanan. «Monrovia, dove ci sono un milione e 300 mila rifugiati, e Buchanan, quando siamo partite erano le sole città dove si poteva ancora vivere. Se avessimo immaginato questo precipitare degli eventi - dicono con la tranquillità di chi è abituato a destreggiarsi in un continuo percorso di guerra - saremmo rimaste. Certo, anche a metà marzo c'era tensione, si prevedeva uno scoppio, ma non così in fretta. Noi abbiamo il biglietto di ritorno per giugno e speriamo di poterlo utilizzare». Ricordando le consorelle Gaudenzina Aricocchi, Alberica Giorda, Eugenia Paola Tappi e la keniota Nicoletta Kiario Marete, rimaste in Africa, suor Carmen dice con tristezza: «Sarei stata là volentieri, nella nostra scuola dove si sono rifugiate centinaia di persone. Ora anche le consorelle dovranno lasciare, capita sempre così quando il pericolo diventa serio. Ma a noi spiace: quella gente è la nostra vocazione, la nostra scelta. Da tempo chi aveva un po' di soldi o un po' di istruzione se n'è andato dalla Liberia. Sono rimasti i più poveri, chi ogni giorno deve lottare per sopravvi¬ vere». Spiega: «Dall'inizio della guerra, a fine '89, l'americana Catholic Relief Service distribuisce cibo alla popolazione, ma ora dal riso sono passati a un misto di grano spezzato. La gente è denutrita». Come cura le suore-infermiere cercano soprattutto di migliorare l'alimentazione dei malati. «Fino a un po' di tempo fa un'organizzazione francese riu^ sciva a distribuire ai bambini una polentina supplementare. Ma adesso è impossibile raggiungere i tanti che vivono all'interno». Suor Gianna Irene mostra una cartolina: un lembo di sabbia interamente coperto di baracche s'inoltra nel mare. «Forse così potete capùe un po' com'è la vita laggiù: non ci sono fogne, non c'è luce, niente. Ma ci vivono 70 mila persone. Io lavoro lì dal '90. Prima ero in una missione nell'interno, ma con la guerra abbiamo dovuto chiuderla». Su quella piccola penisola di sabbia e lamiera suor Gianna Ire- ne, con alcune infermiere liberiane e un medico part-time, ogni giorno assiste 300 malati. «In 24 ore nascono in media 15 bambini. Se ci sono complicazioni, si mette la donna su una canoa, si attraversa un braccio di mare e la si porta all'ospedale sull'altra sponda». Poi aggiunge: «Ma per questa guerra la gente è diventata triste. Molte donne che hanno perso il marito non si curano più, si lasciano andare». E dal silenzioso parlatorio della casa madre di Torino, il pensiero corre laggiù, alla baraccopoli sulla sabbia dove le suore danno coraggio e speranza. Maria Teresa Martinengo «La gente è denutrita nelle baraccopoli le donne hanno perso la speranza e si lasciano andare»