L'epopea di Livingstone esploratore per caso di Fabio Galvano

15 A Londra una mostra ricostruisce vita, avventure ma anche compromessi del grande viaggiatore L'epopea di Livingstone esploratore per caso Qui accanto, le Cascate Vittoria scoperte da Livingstone (sotto) LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE A rovinare tutto fu Henry Morton Stanley, giornalista del JView York Herald,con quella frase che persino i sassi conoscono: «Il dottor Livingstone, suppongo». Anzitutto perché con quelle parole a effetto cancellò - storicamente - la rassegnata risposta del grande esploratore scozzese, ormai stanco e malato e destinato a morire meno di due anni dopo nella «sua» Africa: «Sì, mi avete portato nuova vita». E poi perché, con quella frase, introdusse il linguaggio e l'atteggiamento del protogiornalismo d'assalto del XIX secolo in un mondo, quello delle esplorazioni, che era ancora impresa di gentlemen mossi da nobili ideali. Un rimedio offre in questi giorni la Royal Portràit Gallery di Londra: cercando di dissipare quello slogan nato il 27 ottobre 1871 e di ricreare il clima delle grandi esplorazioni africane negli anni gloriosi dell'Impero e della regina Vittoria. «Il dottor Livingstone e l'incontro vittoriano con l'Africa» - e soprattutto il ricco, documentato e conclusivo studio che accompagna il catalogo vuol essere più che la celebrazione di un grande esploratore. Forse e soprattutto, attraverso quella vita avventurosa ma non priva di risvolti più prosaici, fatti di religione e di politica e di grandi dubbi e di compromessi, tenta di ricostruire un mondo in cui l'esplorazione era anche scienza e cultura e nobili ideali (per Livingstone la via dell'impero, cui il premier Lord Palmerston si oppose, e la campagna contro lo schiavismo, in cui fu invece appoggiato). Un mix in cui la scoperta di quel mondo e delle sue genti non era che un elemento. Lettere, diari, schizzi, ritratti, fotografie, strumenti scientifici, preziosi reperti che, nella mostra, spaziano dalla storia naturale all'etnografia e che testimoniano l'incontro dell'esploratore con gli africani oltre che con l'Africa; ma anche - il mito resta - oggetti personali come il casco della spedizione sullo Zam- besi e il berretto con cui accolse Stanley, o il tronco d'albero sotto cui il suo cuore fu sepolto. E spiegano, oltre a raccontarla, l'esistenza di quel bambino nato nella miseria fra i cotonifici del Lanarkshire e finito fra le glorie nazionali nell'Abbazia di Westminster. Livingstone aveva 28 anni, nel 1841, quando fu mandato missionario a Kuruman, 600 miglia a Nord Est di Città del Capo. Era, per lui, l'avverarsi di un sogno. Messo a lavorare in un cotonificio all'età di dieci anni - era il destino dei poveri, in una società che lottava contro lo schiavismo ma che non aveva pietà in casa - aveva saputo affrancarsi con le forze proprie, studiando la sera latino, botanica, teologia e matematica e riuscendo, a 23 anni, a entrare all'università di Glasgow. Si era laureato in medicina e, contemporaneamente, era stato ordinato daila Chiesa Congregazionahsta che lo mandò in missione. Ma la missione di Kuruman, fondata da Robert Moffat, fu un insuccesso. Il sogno svanì; e l'unico risultato positivo fu che Livingstone sposò Mary, la figlia di Mof¬ fat. Frustrato da quella vita, e incoraggiato dal presidente della Royal Geographical Society, il missionario si riciclò in esploratore e affrontò mia prima serie di viaggi conclusasi, nel periodo 1853-56, con l'epica traversata del continente africano, fra Luanda sulla costa occidentale a Quelimane sull'Oceano Indiano: un'impresa come, oggi, volare su Marte. Il ritorno a Londra, nel 1856, fu trionfale: persino la regina, col cui nome aveva battezzato le Cascate Vittoria, lo volle a Palazzo. Il mondo politico era pronto alle sinergie del tempo, anche se Lord Palmerston, che avrebbe incoraggiato e poi sancito la successiva esplorazione dello Zambesi, non condivideva i suoi piani colonialisti. Nessun altro momento della sua vita avrebbe riportato Livingstone agli stessi trionfi. Né la spedizione del 1858 allo Zambesi, né quella del 1865 alla ricerca delle fonti del Nilo. Contrariamente alle sue speranze, lo Zambesi non si dimostrò navigabile, e quindi svanì - davanti alla prua della sua lancia a vapore Ma Robert - come strumento di commercio destinato a soppiantare lo schiavismo; e poi in quella spedizione gli morì, di febbre, la moglie Mary. Il maggior successo, paradossalmente, fu la documentazione visiva dell'Africa misteriosa, attraverso le fotografie di John Kirk e i dipinti di Thomas Baines. Fu durante la ricerca delle fonti del Nilo, dopo la spedizione di John Hanning Speke e James Augustus Grant, che Livingstone si perse. Non per giorni, ma - date le distanze e i mezzi di comunicazione - per anni; fino a quando il New York Herald e Henry Morton Stanley centrarono «lo scoop del secolo». Ma era la fine. Due anni dopo, il 1° maggio 1873, Livingstone morì in un villaggio sulle sponde del Lago Bangweulu. 1 suoi resti, imbalsamati con sale e brandy, furono portati a spalle fino alia costa: un viaggio di tremila chilometri, durato nove mesi. Quando arrivarono a Londra il riconoscimento fu possibile solo per l'omero fratturato molti anni prima dal morso di un leone. Fabio Galvano Come missionario fu un disastro E alle foci del Nilo incontrò Stanley o o un to il età E inmunnigs