Da Ulisse al Satyricon

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Valentino Zeichen VI sono scrittori dal destino appariscente, che hanno vite affascinanti, personaggi di romanzo e al contempo autori di opere e infine protagonisti futuri di quelle altrui. In «Una vita controvoglia» Alberto Moravia è il protagonista di questo avvincente metaromanzo di Renzo Paris, edito da Giunti. Perché metaromanzo? Nemmeno più manierismo, ma solo maniera, è lo stile inevitabile di questa letteratura di fine secolo/millennio. Paris ci consegna il ritratto di uno scrittore resistente come individuo, fra gli onnivori totalitarismi degli Anni Trenta. A letteratura in lingua inglese possiede una solida tradizione in merito a esteti (categoria che certo comprende i gastronomi) criminali, da Poe e il barile di Amontillado a Dorian Gray, passando per T.G. Wainewright, «dandy» contemporaneo di Dickens, padre della critica d'arte d'Oltremanica, celebrato da Swinburne e da Oscar Wilde come squisito amante del bello. In carcere per avere avvelenato alcuni parenti, questo grande dilettante si difendeva dicendo di averlo fatto solo per entrare in possesso di una eredità; ma quando gli fecero osservare che una certa cuginetta, eliminata anch'essa, non avrebbe potuto dargli fastidio in tal senso, sospirò: «Ah, già. Quella è stata un'azione incresciosa. Ma aveva delle caviglie così grosse. una operazione sui cui scopi veniamo tenuti all'oscuro per quasi tutto il libro, questo colto, garrulo ed eccentrico signore parla capricciosamente del d Basta, o mi sbilancerò troppo su Gola di John Lanchester, già giornalista sportivo, poi redattore di una rubrica per «gourmets», ora vicedirettore della London Review ofBooks. Articolata in quattro «stagioni», questa narrazione dall'andamento apparentemente capriccioso come i saggi («essays») di Charles Lamb, culmine dell'arte della divagazione continua, ha in gran parte la fisionomia di una raccolta di ricette di estremo snobismo. Colui che parla, infatti, e che si autodescrive per cenni obliqui, molto gradualmente, sembra inizialmente «soltanto» uno di quegli insopportabili inglesi con casetta in Provenza, che parlano il francese meglio degli indigeni e sanno tutto sulla «bouillabaisse» e sull'«aioli», e che quando vanno in una «épicerie» possono dar lezione al «propriétaire» sui prodotti che ha in mostra, di ciascuno dei quali conoscono a menadito anche l'origine («Non meno di cinque versioni diverse della principale gloria normanna, il Camembert, esempio delle idee proficue che possono talora scaturire nei periodi di fermento storico, dato che questo formaggio fu il risultato di un incrocio fra gli ingredienti dei territori normanni e le tecniche casearie di Meaux, esportate nel Camembert dal giovane Abbé Gobert che fuggiva il Terrore nel 1792. E poi Livarot, Pont-L'Evèque, Neufchàtel, un Brie che ai miei occhi forse ipercritici sembrava un po' gessoso al centro...»). Spostandosi con calma da SaintMalo verso la sua dimora non lontana da dove visse una volta il Petrarca,, impegnato in una operazione sui cui scopi veniamo tenuti all'oscuro per quasi tutto il libro, questo colto, garrulo ed eccentrico signore parla capricciosamente del proprio passato di ragazzino brillante, cresciuto all'estero in una famiglia poco conformista, con un fratello destinato a diventare uno scultore famoso, e intesse con le proprie reminiscenze dottissime dissertazioni sul cibo, di solito articolate intorno a un menù particolare, per esempio «Insalata di caprino - Stufato di pesce - Torta di limone». Di alcuni piatti egli dà la ricetta, discutendo amorosamente ogni dettaglio; per altri sorvola con impazienza, per esempio la torta di limone consiglia di comprarla da un pasticciere di fiducia. Da vero bongustaio, è maniacale e do¬ gmatico, e quei molti di noi che pur mangiando quello che gli capita amano ogni tanto sognare leggendo di prelibatezze, a un certo punto troveranno stucchevole la caratteristica ricerca del «mot juste» da applicare e ogni sfumatura di aspetto o sapore. Ma qui appunto entra in funzione la trovata del libro, quella che giustifica il sottotitolo di «romanzo» e sulla quale non è lecito dare anticipazioni. Il senso di saturazione e, diciamolo pure, di leggera antipatia suscitato da una esibizione pur così brillante e così spesso affascinante di cultura culinaria internazionale, ossia anglofrancese e anche slava (sull'Italia il nostro è meno preparato, al massimo dice che gli è giunta voce di un accoppiamento dei fichi col prosciutto di Parma), continuamente alimentata da citazioni erudite e divertenti che spaziano dalla filologia alla storia della pittura - nonché, il che non guasta, tradotta benissimo -, questo senso di saturazione e di leggera antipatia, insomma, si rivela strumentale in vista di un risvolto di cui posso dire soltanto che è cinicamente macabro e perfettamente integrato nella illustre tradizione di cui sopra. Masolino d'Amico I— I CIBI LETTERARI - Da Ulisse al Satyricon NON vorrei davvero passare per uno snob, anche perché non lo sono mai stato. Però io ho due libri, due romanzi, tra quelli che hanno il cibo come argomento «centrale», che da sempre mi affascinano. Libri di formazione. I! primo è VOdissea, poema conviviale se altri mai: tutto ciò che accade, il romanzesco, l'intrico, l'azione, l'avventura è raccontato dal protagonista a tavola, mangiando e bevendo (ma pure Telemaco...), oppure nell'imbandigione terribile, decisiva e conclusiva, con massacro di quegli instancabili mangiatori che furono i Proci. L'altro romanzo è il Satyricon. L'eroico ha lasciato il suo posto alle raffinatezze della decadenza, una strada stupenda che arriverà a Eliogabalo, e in cui la gola sembra finalmente sopraffare la spada. Il ricettario del Satyricon è degno dei migliori cuochi delle corti rinascimentali. Quando, insomma, scrivono Merlin Cocai e Rabelais: la grande rivoluzione e la nascita della modernità incominciano con due romanzi comico-gastronomici. Metafore, allegorie? Certo, ma non più di tanto. Semmai una rivalutazione del corpo della sua spiritualissima materialità, della sua virtù di godere (e altro ancora, d'accordo). Addio Medioevo. Per dire che non c'era bisogno di aspettare Simenon, l'Esquivel, Montalbàn, Lanchester... Già fatto. Folco Portinai-i creargli apprensione per una possibile disannonia (ed è uno dei tratti più fini del racconto, questa minuscola eresia della bellezza); basta la sua inclinazione alla musica, «che annebbia la coscienza». In effetti, con placida distrazione, soffice resistenza, pigro edonismo, Zelda allontana Stiler dal compito al quale si è votato. A poco a poco le piante coltivate si ammalano, il parco rinselvatichisce, un frusciare di serpi smuove le erbe dell'Eden. E allora quell'uomo «di carattere», come recita il titolo, spezza il tenero legame con Zelda, per riprendere il dominio sul terreno contaminato. Naturalmente sarà sconfitto, complici la vecchiaia e la morte, ma resta la nobiltà della sfida. Anche se gli occhi contemplativi del testimone, e di chi scrive, non rinuncia¬ no a lasciarsi catturare dal fascino del selvatico e dell'indistinto, dal muschio che aggredisce, nel giardino, le serene fattezze della statua di Artemide. La vicenda narrata da Paola Capriolo appare tutta dispiegata in un organismo compatto, levigato e penetrato da una luce fredda, da caste emozioni. Forse sarebbe stato più plausibile, nella sua dissonanza, un amore meno esangue, una accensione in Zelda di femminile sensualità, un più forte calore vitale. Ma è in quella uniforme tonalità nordica che vanno colte le suggestioni più vere di un romanzo, di una scrittrice che, dopo qualche prova disuguale, ritroviamo in una fase febee, di maturazione e di crescita. Lorenzo Mondo LA PIETAS DI CANALI Memoria tra guerra e fascismo PIETÀ' PER LE SPIE Luca Canali Piemme pp. 191 L. 28.000. PIETÀ' PER LE SPIE Luca Canali Piemme pp. 191 L. 28.000. A parola-chiave dell'ultimo romanzo di Luca Canali, Pietà per le spie, appena uscito da Piemme, è nel titolo. Più pietas che pietà, come si conviene al latinista che ha tradotto Virgilio, Lucrezio, Petronio e che ha insegnato per molti anni letteratura latina all'Università. E' un motivo che Canali sente molto. Già lo ha trattato in qualcuno dei suoi racconti ma specialmente nel romanzo del '91, Poco più di niente, scritto all'insegna di un'epigrafe di Cioran: «Tante fatiche, tante angosce, per essere poco più di niente». Il grande tema del caos della storia, dei destini che vi si incrociano, dell'ironia che li traccia, dell'ineluttabilità che li guida, della morte che li attrae. La pietas non è altro, a questo punto, che il punto di fuga centrale di uno sguardo severo e privo di indulgenza, ma anche ricco di pazienza umana. Lì converge ogni linea del romanzo, che è concepito e scritto, se non fosse per qualche raro tratto di maggior coloritura, con quasi ossuta essenzialità. Come conviene del resto a un'emozione chiara e forte, che non ammette decorazioni. La vicenda va dal 1936 al 1985 e il romanzo finisce ad essere a suo modo una personale rivisitazione dei nostri ultimi cinquant'anni di storia, che viene deliberatamente dopo ogni celebrazione ufficiale: il fascismo, la guerra, il 25 luglio, l'8 settembre, la guerra civile, il 25 aprile. Qui si muove mia diramata vicenda di meontri e di scontri, ognuno con la sua inevitabile quota di segreto e di dolore. Due amici, Guido Nutria e Luigi Corsieri, hanno tratti comuni e diversi: l'uno figlio di un volontario fascista morto in Spagna, disperatamente ma lealmente abbarbicato al proprio errore; l'altro, rampollo di una nobiltà smarrita, avvitato alla propria solitudine, alla propria ambiguità, alla propria tristezza. Il primo a un fascismo «nero-tenebra», il secondo a un fascismo «grigio-rosa». Nessuno dei due o tutto abietto o tutto degno. Intorno a loro ruota una città come Roma, specie nel gruppo di strade e vicoli che a partire da Via Giulia s'intersecano tra piazza Farnese e Ponte Sisto, e poi tutta ima folla di figure che sarebbe difficile dire ad una ad una: una nonna, uno zio, una domestica e la figlia, un maggiordomo e la moglie, un avventuriero spregiudicato, un fabbro, un tenente tedesco che vive sdoppiato tra attrazione culturale e disgustoso sadismo, una donna che per vendetta si prostituisce. E ancora gli incroci delle vite che si legano, si perdono, si ritrovano (oppure no), si illudono, si abbandonano alla tentazione di vivere o a quella dj.morire. Su tutto il punto di vista, che Canali mette in bocca a un suo personaggio importante (lo zio di Luigi Corsieri, l'architetto antifascista Maurizio La Rocca): «Non esistono persone completamente malvagie e persone dei tutto buone»; bontà e malvagità «sono spesso mischiate insieme», anche se la necessità di giudicare resta. Nessuna assoluzione facile o patetica dunque, nessun revisionismo equivoco. Ma invece, secondo quanto ci ha insegnato mi libro tragico come I sommersi e i salvati di Primo Levi, la coscienza di mi viaggio dentro quella «zona grigia» dell'uomo che scavalca i recinti del Lager. Non parole medicinali o di conforto ma parole e storie secche che Canali sa dire come si deve, senza compiacimenti e senza indugio. La pietà - sembra suggerire non è mai soddisfatta di sé. Giovanni Tesio ANCORA CANALI: I TEPPISTI ROSSI IN CONTEMPORANEA RADDOPPIO in libreria per Luca Canali: quasi contemporaneamente a Pietà per le spie esce anche da Marsilio (pp. 97, L. 20.000) Ci chiamavano teppisti rossi. E' una cronaca tumultuosa degli Anni 50 quando sul palcoscenico della politica i leader si chiamavano Togliatti, Nenni, La Malfa, De Gasperi, Ma)agodi eAlmirante. II sottotitolo recita: «Illusioni, scontri, guerriglia urbana negli anni eroici e barbarici dell'utopia comunista». E' la ricostruzione dell'epoca della guerra fredda, delle piazze sempre calde, delle sezioni del pei aperte tutti i giorni dal mattino a tarda notte, del sogno di una società nuova, della ribellione feroce e passionale contro i fascisti. Ed è anche il ricordo della giovinezza passata, delle amicizie perdute e degli affetti troppo .spesso concitati.

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