I FRATELLI GONCOURT Veleni d'Italia

LA STAMPA Dopo 141 anni dalla stesura, esce il «giornale» inedito del viaggio nella Penisola: sei mesi fra disavventure e sorprese I FRATELLI GON00URT Veleni dItalia PARIGI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE «A Firenze, tre strade su quattro puzzano di carogna, le donne si mettono in testa cappelli che sembrano zerbini, l'Arno è senz'acqua e il Lungarno somiglia a un vespasiano, la Piazza Ducale ricorda gli imballaggi d'antiquariato e vi regna un'umidità putrida che strema». Le cose non migliorano in quel di Livorno, che si presenta come «un sozzo quartiere di Le Havre, con tutta la sporcizia dell'Italia». Quanto all'idilliaco Lago Maggiore, il quadretto di «vecchie puttane che sputano mercurio» (si usava per curare le malattie veneree) «sui lastroni di pietra dove l'onda muore» è sì pittoresco, ma non troppo celebrativo. E per finire, una definizione ancor più agra - se possibile - degli italiani, «popolo che mendica sui gradini d'un museo in nome dei capolavori». Lo stesso pontefice se la cava maluccio: «Un faccione appiattito, occhi a fior di pelle, bocca carnosa, le pieghe bavose dei monaci». E' un ritratto al vetriolo quello che i fratelli Goncourt tracciano sull'Italia sabauda, austriacante, papalina e borbonica. Sei mesi di viaggio, dal novembre 1855 al maggio '56, lungo un itinerario che nulla ha di stendhaliano - s'inizia con Domodossola, anzi Domo d'Ossola, per finire a Napoli via Novara-Milano-Brescia-Verona-Venezia-Padova-BolognaFirenze-Pisa-Livorno - e lungo il quale disavventure e sorprese si moltiplicheranno. Tra le prime, un feroce mal di denti che obbligherà Jules, da Parma in poi, a ingurgitare due tazze di caffè al giorno e null'altro, maritando la fame nera con il timore dei leggendari banditi appenninici. Le sorprese sono invece, anzitutto, climatiche. A Mantova, reduci da una Padova miserevole in cui Edmond immortala un surreale cameriere «asciugare con il fazzoletto il fiato degli affamati che guardano ai vetri», Jules osserva: «Gli italiani hanno l'amor proprio del loro sole. Credono all'estate tutto l'inverno. Il sole è la loro amante. Non ne dubitano mai. Niente camini, sarebbe un'ingiuria. (...) L'italiano non si scalda. E non ha freddo: aspetta. Insomma, in questa Siberia ufficiosa, il cui segreto è sì ben protetto dai viaggiatori, si presume che il freddo non esista». Penna al curaro. E la matita non è da meno. Perché i Goncourt - veri Frutterò & Lucentini dell'800 francese - non si limitano a scrivere in tandem, accavallando le loro grafie talora nella medesima pagina, ma aggiungo- no disegni, schizzi, croquis amatoriali dal tratto non di rado ironico. Insomma, per alcuni versi almeno il loro journal italien è assai più sulfureo di quello sadiano pubblicato l'anno scorso. E 141 anni dopo la prima stesura, conserva una straordinaria freschezza. Quei 135 fogli zeppi di annotazioni (il primo quaderno, come bravi scolaretti, lo comprarono in una cartoleria ossolana), dopo un lungo sonno - dal 1911 - negli archivi del Louvre, usciranno alfine in libreria il 20 aprile per i tipi delle edizioni Desjonquères. 350 pagine, totalmente inedite salvo qualche centinaio di righe sparse. Chi si attende una guida alle grazie della Penisola, bignami geo-artistico-letterario per viaggiatori in cerca d'emozioni mediterranee, andrà deluso. E gli storici gli terranno compagnia. Perché sembrerà incredibile, ma i Goncourt riescono a vagabondare in una Penisola ove il lievito patriottico plasma discussioni intel- lettuali, imperversa nei caffè «luogo ove non si consuma alcunché» osservano i micidiali fratelli - contagia la musica, destabilizza gli equilibri sociali... e l'imperturbabile coppia JulesEdmond con sovrano distacco annota la «bellezza iberica» di Novara, cataloga i musei sala per sala, illustra con dovizia la ricetta del parmigiano, inventaria vini. Il «gattinara amaro vecchione», il «barbera dolce», il «passaretta» repertoriati a Pallanza, le vivande milanesi - «cucina meneghina: geniale travestimento di cibi, piacevole all'occhio e al gusto, uno splendido carnevale. I cuochi sono degni emuli dello chef di Luigi XV, che gli serviva tutte le carni ma in magro» - non avranno più segreti per il lettore. Che in cambio si domanderà chi mai fossero Mazzini, Carlo Alberto, Leopardi... mai citati. E i personaggi storici che popolano il loro resoconto più che vederli li si intuisce - da Byron a Casanova, ad Alfieri a Pio IX - per fugaci accenni. E' che i Goncourt hanno fame di impressioni dirette, vibratili. Immagini folgoranti come quell'«armée di ceri tesi verso il Cielo» cui paragonano il Duomo di Milano e che ci fa dimenticare le due righe appena - superficiali se non irriverenti - che totalizza la Cena leonardesca. Cosa cercano in Italia? Rispondere non è facile. Certo li interessa l'arte. Due terzi almeno delle Notes sur l'Italie concernono le bellezze artistiche nazionali. Ma, anche qui, hanno una loro personalissima graduatoria. Sul Battistero di Firenze non troviamo granché, e la stessa Sistina pare lasciarli freddi. Aggiungiamoci una scarsa propensione alla cose di Chiesa, su fondo di agnosticismo con venature anticlericali, e le descrizioni sulla Settimana Santa in San Pietro ci trasmetteranno l'impressione che a vergarle siano stati due entomologi. Ma il popolo, o meglio le sue fisionomie, appassionano i fratelli. Una o due frasi di «prosa poetica» - lo stile cui vorrebbero ispirarsi entrambi - e i fuggevoli incontri a un angolo di strada con singoli uomini e donne divengono letteratura. Ascoltiamo Edmond dipingere il «guappo». «Tipo vivente e reale di fanfarone. Ingrendienti; un goccio di Bel Marsigliese, giacca sbottonata e coppola con galloni d'oro. La chioma cade come bouquets di piselli, capelli corti sull'occipitale, lunghi sulla fronte e intrecciati come quelli degli antichi bravi. Eterna mimica che pare voglia annunciare un colpo da maestro. E quando si mette in collera contro un avversario, eccolo cercare un coltello in tasca: "Dov'è? Dov'è? Voglio bere il suo sangue"». Non meno sarcastico a Roma. «Associazione Donne in Pericolo. Se una donna è minacciata nella sua virtù, va a trovare un membro di questa pia società e gli dice: "Non ho pane, e voilà un uomo che mi offre due scudi se giaccio con lui. Sono obbligata a farlo. Ma datemi tre scudi, e non lo farò". "Una prova" le domandano. E lei esibisce una lettera». Morale: «L'associazione scuce i tre scudi, e la donna andrà tranquillamente a letto con il suo corteggiatore». Ultimo dettaglio: «La folla muliebre in coda è composta di sessantenni». Irresistibile. Come quasi tutti gli altri siparietti che Edmond & Jules aprono sul vizio italico. Al punto da far sorgere il sospetto che - come nell'invettiva antifiorentina - gli autori si lascino un po' prendere la mano, e la foga narrativa finisca per far loro smarrire l'esile confine tra fiction e realta. In ogni caso, lo slancio è di breve durata. Edmond tornerà a Parigi atono e languido. «Gli altri - scrive - mi annoiano. 11 mio io anche. Non è capitato nulla a nessuno». Enrico Benedetto Attratti dall'arte: «Ma in nome dei capolavori la gente mendica davanti ai musei» «Qui hanno il sole come amante Non ne dubitano mai Niente camini, sarebbe un'ingiuria» II Duomo di Milano? «Un'armée di ceri tesi verso il Cielo» Firenze? «Ire strade su quattro puzzano di carogna». Il Papa? «Faccione appiattito» Qui a fianco Vittorio Alfieri, sopra Giacomo Casanova e nelle immagini piccole, dall'alto, George Byron e Pio IX I fratelli Jules e Edmond Goncourt visitarono l'Italia dal novembre 1855 al maggio '56