Le sfide di un uomo cauto

Le sfide di un uomo cauto Le sfide di un uomo cauto In bilico tra invettive e silenzi UN VESCOVO IN TRINCEA CPALERMO OME la gran parte dei personaggi pubblici siciliani neppure Leonardo Sciascia fu risparmiato, né in vita, né dopo la morte - il cardinal Pappalardo ha dovuto fare i conti con la «guerra di religione» che in Sicilia si combatte su un solo terreno: quello della lotta alla mafia. E come Sciascia, anche l'Arcivescovo è stato sottoposto alla doccia scozzese del duro giudizio provocato da cambiamenti d'umore, interpretazioni prima benevole e subito dopo acide, anatemi per le cose dette e per quelle taciute. I media hanno consegnato alla memoria dei siciliani due Pappalardo, anche se lui, uomo cauto, paziente, pieno di attenzioni ma certamente intelligente, ha sempre rifiutato l'accusa di aver «cambiato idea» dopo la stagione della denuncia, culminata nella famosa «omelia di Sagunto», gridata nella basilica di San Domenico, alla presenza di Pertini, davanti al feretro del generale Dalla Chiesa. «Mentre a Roma si discute - inveiva un Pappalardo terreo in volto - Sagunto viene espugnata». L'invettiva era troppo forte, anche per il luogo e il momento, perché potesse esprimersi in una ulteriore esplosione. Seguì un periodo di silenzio, di riflessione. Bastò questo perché Palermo - città terribile se vinta dal pregiudizio e dal luogo comune - si facesse prendere dal fremito del sospetto verso il cardinale. Ci fu un episodio che contribuì in qualche modo ad avallare i timori per un possibile «ripensamento» di Pappalardo sul fronte della lotta alla mafia. I boss scesero in prima persona sul sentiero di guerra e mandarono al presule messaggi chiari. Si legge nel libro «Obiettivo Falcone» (Galluzzo, Nicastro, Vasile, Pironti editore) che l'Arcivescovo (1983) «si reca in visita al carcere dell'Ucciardone: davanti a lui si leva a parlare improvvisamente il bancario Francesco Lo Coco, imparentato col capomafia Giovanni Bontade... Lo Coco invita il Có-dinale a far presente ai magistrati suoi amici l'inumano trattamento cui essi sottopongono la gente... Di lì a qualche giorno la mafia si conquisterà le prime pagine imponendo agli altri detenuti di disertare la tradizionale messa di Natale (in effetti si trattatva di Pasqua, ndr) che il cardinale avrebbe dovuto celebrare dentro il carcere». Come andò all'Ucciardone? Ce lo racconta il collaboratore Carmelo Mutoli («Mafioso per caso» di Pino Nicotri, edizioni Kaos): «Verso Pasqua accadde un altro fatto strano. La direzione del carcere annunciò che sarebbe venuto il cardinale Pappalardo a celebrare una messa e ci invitò a essere presenti in massa. Invece, per chissà quale motivo, Pietro Lo Jacono e Ruggero Vernengo fecero il giro delle celle ammonendo minacciosi: «A chi si azzarda ad andarci, gli spacchiamo le gambe. Finì che il cardinale si ritrovò in cortile a celebrare la funzione alla presenza del solo direttore e di poche guardie. Ma a un certo punto dalle celle di scatenò un diluvio di urla e insulti tremendi...». Pappalardo intimidito? Forse la verità è che più di dove si era spinto (consideriamo il contesto storico), l'Arcivescovo - che non è un politico schierato - non poteva andare. Malgrado la «simpatia» per Leoluca Orlando e la consapevolezza del «ritardo» con cui la cosiddetta società civile marciava verso la presa di coscienza antimafia. Il vescovo non poteva spaccare ulteriormente una società già dilaniata. Arrivato a Palermo nell'ottobre del 1970 (dalla direzione della Pontificia Accademia Ecclesiastica di Roma), cioè un mese dopo la misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, Pappalardo ha vissuto tutte le tragedie siciliane, una dopo l'altra: da Scaglione a Mattarella, a Dalla Chiesa, a Falcone e Borsellino, passando per quella che ha toccato direttamente la Chiesa: l'assassinio di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio. Una posizione difficile, la sua, specialmente avendo dovuto raccogliere l'eredità del cardinal Ernesto Ruffini, accanito assertore della mafia come invenzione dei comunisti. E' stato anche solo, Pappalardo, se si considera il confronto a distanza con l'arcivescovo di Monreale, mons. Salvatore Cassisa, oggi proposto per il rinvio a giudizio e accusato di interesse privato. Eppure non si può dire sia rimasto in silenzio. Ha sferzato i politi¬ ci, ha spronato la Chiesa e forse è anche merito suo se Giovanni Paolo II ha lanciato l'anatema di Agrigento contro la mafia. Certo è un uomo che tende ad unire, piuttosto che a dividere, fino a teorizzare che la Chiesa non può essere contro nessuno, neanche contro i boss, che devono essere redenti. A quanti lo hanno criticato, ha risposto dopo lunghi periodi di silenzio, scelti per abbassare la temperatura delle polemiche. Comunque ha risposto. Proprio a questo giornale ha detto di aver gridato quando «poco si parlava di mafia e della sua nefasta influenza. Chiari richiami talora ho dovuto fare alla cosiddetta mafia dei colletti bianchi e alle protezionei che i mafiosi potevano vantare». «Naturalmente - ha spiegato - dovevo stare nel ruolo di vescovo, né assumere compiti che non mi spettassero». Francesco La Licata Nel 1983 i detenuti dell'Ucciardone disertarono la messa da lui celebrata pdi Agrigento. «Non potrò mai dimenticare - sottolinea - il grido di ferma condanna e di pressante , invito alla con- \ ^Riversione sgorgato \ dal suo cuore di | padre nella Valle : dei Templi». E \ §s£"i nell'annunciare ' v~\ ggresule di agire nuità e De ovo ermo: Taranto 87 ,r| ple l• ds'•f .,. . ,„s sI* ' rvcsfcI cI d:- 1 s~> } n'•ÌIS- V 1 e| riM | W, ì diti? 4Ct «lPstpnsnb Sopra, l'arcivescovo Salvatore Pappalardo: continuerà a vivere a Palermo, nella comunità diocesana sulla collina della borgata Baida