Così muore il «fattore K » di Pierluigi BattistaAlberto Ronchey

Così muore il «fattore K » Così muore il «fattore K » Tramonta il veto sui comunisti DA RONCHEY A CLINTON L: ROMA A formula suonava enigmatica. E anche un po' lugubre, vista l'assonanza con il nome del protagonista del Processo di Franz Kafka. La formula era infatti «Fattore K». Kappa come Kommunist o Kommunizm. Formula misteriosa ma certamente negativa. Negativa per il pei di Berlinguer che proprio nella primavera del '79, alla vigilia di una svolta politica che avrebbe messo fine all'epoca della «solidarietà nazionale», si trovò a dover fare i conti con la formula cornata in quei giorni da Alberto Ronchey e che oggi pare obsoleta alla luce delle dichiarazioni di Clinton sulla legittimità di entrambi gli schieramenti in competizione ad assumere posizioni di governo. Fattore K, ovvero, il «fattore impedimento», la sigla che riassùmeva l'impossibilità per un partito comunista dell'Occidente di accedere al governo del Paese. Ovvero, con le parole di Ronchey: «Dovunque, nell'Europa occidentale, c'è una forza comunista, massima come in Italia, media come in Francia o minore co¬ me in Spagna, il ricambio di governo è impossibile poiché la sinistra non raggiunge in nessun caso la maggioranza». «Una legge politica», quella enunciata da Ronchey, che sanciva la responsabilità dei «comunisti, con quel nome legato all'esperienza sovietica, senza un'ideologia e una politica estera davvero conformi alle condizioni storiche dell'Europa occidentale» per il mancato ricambio di governo a favore anche della sinistra non comunista giacché il «fattore K impedisce che siano i socialisti e i socialdemocratici a rappresentare l'alternativa, come accade invece in Inghilterra o nelle nazioni scandinave, nella Germania federale o in Austria». Una «legge politica», una formula netta e concisa per spiegare la vicenda storica della «democrazia bloccata» in Italia. Era il 1979, appunto. Il compromesso storico stava contando i suoi ultimi giorni, con un pei molto più ammaccato e frastornato della de. C'era Breznev. Il pei non aveva ancora annunciato lo «strappo» dall'Urss e Berlinguer parlava ancora dei regimi dell'Est come di Paesi «socialisti con tratti illiberali». In Francia non aveva ancora vinto Mitterrand, che pure avrebbe portato i comunisti di Marchais con sé, ma in posizione subalterna e condannadoli al destino dell'estinzione politica nel giro di pochi anni. Fatto sta che i comunisti reagirono male. 0 con il silenzio. 0 con la stizza, come Alfredo Reichlin che commentò: «Per noi gli esami non finiscono mai». In ogni caso con un sordo rancore nei confronti di chi, davanti all'interrogativo: «Come mai con un pc forte la sinistra non va mai al governo in un Paese dell'Occidente?», mostrava quanto non pertinente e autoconsolatoria fosse la risposta fornita dai comunisti: perché c'è l'America che costringe l'Italia in una condizione di «sovranità limitata», perché «c'è chi ci vuole ricacciare indietro...», perché «le forze della reazione...», perché «la strategia della tensione...». Naturalmente Ronchey, da scienziato della politica, enunciava una tesi, non un desiderio. E poco gli importava l'uso che di quella bronzea «legge politica» avrebbero fatto i protagonisti della politica romana. L'allora «alternativista» Craxi, ad esempio, proprio sull'esistenza del «fattore K» fondava la sua politica del ((riequilibrio a sinistra» che consentisse ai socialisti di ridurre il peso del pei e di conquistare la leadership della sinistra. I comunisti non vollero capire la lezione, e cambieranno nome e simbolo con qualche (fatale) anno di ritardo. Lugubre o enigmatico, di sicuro il «fattore K» non era un'invenzione nata nella testa di un politologo innamorato delle formule. Come la storia si è incaricata di dimostrare. Pierluigi Battista Alberto Ronchey