Le bollicine caricano i cannoni

Le bollicine caricano i cannoni In palio il predominio di un mercato che vale centomila miliardi di lire Le bollicine caricano i cannoni L'ultimo round nella guerra tra Coca e Pepsi UNO SCONTRO IN LATTINA SWASHINGTON EMBRA una storia di aria fritta, anzi, di acqua gassata, sembra una guerra sapida e lievemente ridicola di bollicine e di ruttini, ma soltanto fino a quando cominciano a sparare i cannoni delle cifre e ad avanzare i reggimenti dei contabili. La nuova «campagna d'estate» della Pepsi Cola contro la Coca-Gola, annunciata a Londra al costo di 800 miliardi di lire per rispondere alla offensiva della «Coca-Colimpiade» di Atlanta controllata e comperata dalla rivale, è l'ennesimo capitolo di una guerra mondiale cinquantenaria che è sopravvissuta alla Guerra Fredda. Una guerra che non conosce tregue, che fa caduti, conquistatori, spoglie e soprattutto soldi, montagne inimmaginabili di soldi. Insieme, i due imperi rastrellano ogni anno quasi 100 mila miliardi di lire dalle tasche di consumatori in 185 Paesi. E tutto questo vendendo banale acqua zuccherata, colorata e gassata che costa ormai molto meno produrre della lattina che la contiene. Ma è inutile sorprendersi alla scoperta che il contenuto vale meno del contenitore, perché la storia del successo e della guerra di queste superpotenze della sete è tutta una storia di confezione, di impacchettatura, di immagini, di nulla. Ci sono migliaia di ottime gassose, di deliziosi soft-drinks, di bevande dissetanti, là fuori nel mondo. Ma chi beve Coca-Cola o Pepsi Cola beve un nome, un marchio, un simbolo. Beve America, beve investimenti pubblicitari, beve le mossettine isteriche dell'efebo Michael Jackson, si disseta all'erotismo da bar sport di Madonna, succhia la voce pastosa di Bay Charles e, dalla prossima estate, potrà abbeverarsi alle gambotte di Andre Agassi o alle gambe statuarie della Schiffer e della Crawford, gli ultimi reclutati dalla «Pepsi» per l'offensiva d'estate. Ogni spesa, ogni «big name» dello sport, dello spettacolo, della musica, è giustificata se ottiene l'effetto voluto, che è quello di indurre il riflesso pavloviano del cliente al bar che ordina una «Coca» o della mamma che facendo la spesa allunga la mano verso il bottiglione di «Pepsi». Per infilare i suoi «spot» nell'ultima finale del campionato di football, nel gennaio scorso, la «Pepsi» non ha battuto ciglio nel pagare il miliardo e 600 milioni di lire necessari all'acquisto di 30 secondi. Per mettere il suo timbro sulle Olimpiadi di Atlanta, dalla corsa dei tedofori sponsorizzati con fiaccola fino al diritto di fregiarsi del titolo di «bevanda ufficiale dei Giochi», la «Coca» ha versato quasi 2 mila miliardi di lire nelle casse degli organizzatori e del Comitato Olimpico. E per distin- guersi ancora meglio dalla odiata rivale, la «Pepsi» ha deciso di puntare sul blu come colore per le sue lattine, più allegro, più ottimistico, più giovane - dicono - del «rosso Coca». Obiettivo, strappare un altro 1% del mercato alla concorrente. E se un 1% vi pare poco, ricordate la cifra iniziale: l'l% del mercato delle bolle equivale a mille e cento miliardi di lire. Ufficialmente, sono 87 anni che la «Pepsi», inventata da un farmacista del South Carolina come la «Coca» a base di cocaina era stata inventata da un farmacista morfinomane di Atlanta in cerca di surrogati al suo vizio 40 anni prima, lotta, spende, ringhia per uscire dal ghetto dell'essere «l'altra Cola», la sorellina cadetta esclusa dal titolo e dal castello della primogenita. E forse per que¬ sto, nel dopoguerra, la sorellina minore si è sempre dimostrata più aggressiva, spesso più cattiva, nelle sue campagne. Giocando sulla sua «giovinezza» rispetto alla «decrepita» Coca, lanciò il bellissimo slogan della «Pepsi Generation» proclamandosi la gazosa dei giovani, delle nuove generazioni, di hippies, yippies e yuppies, contro la dannata «rossa» dell'establishment e si affidò alle voci e ai volti di celebri cantanti. Reclutò Madonna, bambola di provincia, reggipetti e reggicalze compresi, per 8 miliardi di ingaggio. Fu un trionfo del cattivo gusto: il 97% degli americani videro lo spot con la porcellotta di provincia Madonna Ciccone almeno 12 volte, calcolarono i pubblicitari. Affittò, per 15 miliardi di «bonus», Michael Jackson, prima che si scoprissero le sue preferenze affettive per bambini e animali domestici. Poi assunse il grande, e antico Bay Charles, ma lo affiancò a tre stupende ragazze di colore, che sculettavano in minigonna a fianco della sua voce, per mandare messaggi inter-generazionali. E nel 1985, quando la «Coca-Cola» barcollò incespicando sulla scellerata decisione di lanciare un nuovo sapore che imitava la più dolciastra Pepsi, parve che il sogno di diventare «Number One» si avverasse. Il presidente della Pepsi, l'italo americano Roger Enrico, annunciò trionfante in un libro biografia: abbiamo vinto il duello. Un momento, Enrico, un momento. Dalla torre della Coca-Cola, che domina come il castello dell'Innominato il centro e la vita di Atlanta, il cubano Robert Goizueta, boss della Coca (due «immigrati», alla faccia degli xenofobi, guidano le superpotenze della gazosa) rispose tornando in fretta al vecchio gusto, ribattezzato «Coca Classica» come fosse Barolo o Mouton Botschild e proclamando che la Coca- Cola era «The Beai Thing», la cosa reale, autentica, la via, la verità, la vita. La «Rossa» tornò davanti alla «Blu», riconquistando il mercato delle «fontane», come si chiamano in gergo, delle bibite servite alla spina nei ristoranti, nei fast food, nelle caffetterie. Ma se negli Usa la lotta era stata davvero serrata, e il sorpasso nelle vendite al supermercato era avvenuto, era, ed è, nel mondo che la «Coca» rimane regina. Il 63% dei suoi profitti e delle sue vendite vengono dal resto del mondo, che è il vero campo di battaglia fra i due imperi, ai quali gli Usa vanno da tempo stretti. Sono 50 anni, da quando la «Coca» fece il colpo magistrale di fornire - in segreto - casse della sua bevanda al conquistatore di Berlino, il maresciallo Zhukov, che le due sorelle-nemiche hanno allargato il conflitto su scala planetaria. In Urss vinse la Pepsi, che aveva puntato su un tale Nikita Kruscev contro la vecchia guardia staliniana e ottenne il primo contratto nel «disgelo» riformista. In Cina, fu più svelta la Coca e il duello si estese poi al Vietnam. Forse per l'associazione della Coca-Cola con gli «imperialisti», dopo la guerra la Pepsi strappò il primo accordo di produzione sotto licenza, con Hanoi, due anni or sono. «Vittoria!», gridò di nuovo Enrico. Non proprio. Due mesi or sono, la «rossa» del cubano ha inaugurato accanto ad Hanoi il primo stabilimento interamente americano in Vietnam. «Pesta ormai solo da vedere - ha detto serio David Horowitz, un giornalista che difende i consumatori americani - chi fra le due aprirà il primo stabilimento e il primo chiosco su Marte». «Noi», gli ha risposto serio Enrico. «E noi ci accontenteremo di conquistare tutta la Terra», gli ha risposto Goizueta. Megalomania giustificata dai fatti: 4 bibite su 5 stappate sul nostro pianeta sono Coca o Pepsi. Il mondo «burps stars and stripes», rutta a stelle e strisce, ha scritto Mark Pendergast, storico della guerra delle bollicine. E noi, cagnetti pavloviani, guardiamo le gambe Pepsi della Schiffer o quelle Coca dei centometristi olimpici e scodinzoliamo, bevendo illusioni gassate. Vittorio Zucconi Sono dei due marchi quattro bibite su cinque stappate nel mondo Campagne pubblicitarie miliardarie per strappare il podio alla rivale IL BUSINESS DELLA COLA (1995) 1892 4-5 milicffcil NEL MONDO DATA DI NASCITA . LATTINE E BOTTIGLIETTE VENDUTE (ESCLUSI USA E CANADA) VARIAZIONI '95/'94 50 milioni CONSUMATORI (STIMA) 1 898 Iti Sitarci i - +7% 20 milioni PERSI IN ITALIA 80% 87 QUOTA DI MERCATO CONSUMO PRO CAPITE (BOTTIGLIETTE O LATTINE) 10% 12 A destra: Claudia Schiffer. La top model tedesca è la nuova testimonial della Pepsi. A lei, a Cindy Crawford e a Andre Agassi si è affidata la società americana per lanciare l'ennesima sfida alla rivale di sempre: la Coca-Cola