Napoli, il Banco piange di Massimo Giannini

Napoli, il Banco piange Napoli, il Banco piange E Ventriglia aveva previsto tutto costretta a investire nella piccola casa editrice: «Ma pecche aggia a' paga, professò?», gli chiese una volta uno di questi illuminati industriali. E Ventriglia, serafico: «Pecche acca vulimmo fà an'ata Adelphi!». Alla seconda, la brava Lina Sastri, 'o Professore ha garantito soirée di gala ovunque ci fosse da aprire mia filiale, e poi autisti, assistenti, paggi. Solerti tutti, con la livrea blu del Banco. Perché il Banco era lui, ed era cosa sua. Lo era quando bloccava i comitati esecutivi e prorompeva in un liberatorio «mo però c'accattammo nu' babà», e i lavori si fermavano in attesa che l'avesse gustato fino in fondo. Lo era quando interrompeva un colloquio, che avemmo con lui nel lontano '87 nel bel mezzo di una guerra con i piccoli quotisti, e lui liquidava il problema con un insofferente «che ne parlamm'a ffà? Piagliamuce nu' caffettino, invece...». Ecco, in questa confusa ma voluta «ammuina» tra pubblico e privato, in questa idea del Banco come la sua propria ditta individuale, Ventriglia è sta¬ to davvero un democristiano a tutto tondo. Quasi il prosecutore ideale - benché con altro stile - di quel notabile irpino, che nel '65, in pigiama a righe e babbucce ai jtaedi, riceveva in casa Piero Ottone e mia piccola folla di povera gente, che aspettava di ossequiare Sua Eccellenza. Il guaio è che, di questa sua inclinazione, non profittarono solo professoresse e attrici. Ma un po' tutti, in questo disastrato Meridione. I politici prima di tutto: i Ras del Golfo, è storia nota, i De Mita e i Gava, gli Scotti e i Di Donato. «E lui lasciava troppo fare», ricorda oggi Carlo Pace, ex presidente del colosso ormai d'argilla di via Toledo, e ora candidato nelle Uste di Alleanza nazionale. «Ma attenzione - aggiunge Massimo Lo Cicero lui era la quintessenza del doroteismo, innamorato degli alti voli pindarici di Moro e dell'ecumenismo politico dei Rumor e dei Colombo, ma proprio in quanto doroteo parlava con tutto l'arco costituzionale». Insomma, nella sua agenda napoletana c'erano anche ex comunisti alla Chiaromonte o post-fascisti alla Rastrelli. Stentavano ad entrarci, invece, gli andreottiani del Golfo, a partire da Cirino Pomicino, che con Ventriglia si accapigliò sempre, a partire da un finanziamento da 357 milioni alla Polisportiva Partenope, che il volitivo Paolo tentò di estorcergli: «So' tutt' fragnacc tuona dal suo attico al Vomero l'ex ministro del Bilancio -, tant'è vero che la Partenope poi fallì. Vulite sape la verità? Noi andreottiani al Banco nun aimm mai contato nu' cacchio! Solo nel '91 riuscimmo a far entrare in consiglio uno dei nostri, Roberto Costanzo, ma intanto lui aveva già aperto nuove porte ai demitiani come Vigliar e ai socialisti come Somogyi...». Insomma, alla fin fine 'o Professore ha lasciato che salissero un po' in troppi per lo scalone del secondo piano di via Toledo, tra i marmi neri e lo storico presepe di Capodimonte. «La Prima Repubblica funzionava così - ragiona Pace -, il Banco faceva comodo, a tutti. Compresi i grandi potentati eco¬ nomici privati, che in passato l'hanno spremuto. Pensi che io, che fui chiamato da Ventriglia nel comitato esecutivo nell'84, me ne andai nell'87 dopo averci litigato per una sponsorizzazione da 3,5 miliardi a favore di uno dei maggiori industriali italiani. Non si può fare, non abbiamo soldi, gli dicevo io. "Ch'aggi'a fa? Chillo m'ha telefonato"... mi rispondeva lui. Alla fine l'industriale fece l'affare, e il Banco pagò...». Pagò sempre, il Banco. «Ma con i politici - aggiunge ancora Pace - la contiguità di Ventriglia aveva un fine più nobile: quello di garantire la ricapitalizzazione, reclamata per anni inutilmente, senza la quale l'istituto è arrivato al tracollo». Ipotesi virtuosa. E in parte sufr fragata da Lo Cicero che - razzolando tra la casa romana in Villa Balestra e la residenza napoletana di Re Ferdinando (una suite all'ultimo piano dell'Hotel Excelsior, bella vista sul mare e su Castel Dell'Ovo) - ha ritrovato un vecchio appunto vergato da Ventriglia nell'autunno del '94, cioè poche setti¬ mane prima della sua scomparsa, quando ormai già si considerava fuori dal suo amato Banco, rimasto nelle mani di «sciacalli ingrati», come li definiva, e cioè gli amministratori delegati Pietro Giovannini e Gianpaolo Vigliar, che pochi mesi prima gli avevano inflitto un'onta incancellata: "E muri, hanno fatt' 'e muri"... confessava sconsolato: i due manager, cioè, senza avvisarlo e profittando della sua già seria malattia, gli avevano fatto rimpicciolire la stanza, per ingrandirsi e isolarsi le proprie. In quell'appunto amaro, dunque 'o Professore tracciava un quadro presago e fosco sui destini del Banco, appesantito dalle sofferenze, dal «dissesto temuto che invita a comportamenti sleali o quanto meno opportunistici anche le imprese che sarebbero capaci di onorare l'impegno», e che quindi aveva bisogno di ricapitalizzazioni almeno per ulteriori 4 mila miliardi. Guardate il caso: proprio la somma delle perdite del Banco in questi ultimi due anni... Insomma - ragiona ancora Lo Cicero -, Ventriglia sapeva bene che prima o poi i guai del Banco sarebbero esplosi. Lui, ormai vecchio e malato, allora non aveva più nemmeno «'nu tavolo», per cercare di rimediare ai guasti del passato. Resta da capire perché non ci sono riusciti i suoi modesti epigoni. Massimo Giannini (1. Continua)

Luoghi citati: Capodimonte, Napoli