Come novelli Pisacane in marcia nel Cilento di Lino Jannuzzi
Come novelli Pisqcane in marcia nel Cilento Come novelli Pisqcane in marcia nel Cilento ACROPOLI DAL NOSTRO INVIATO Votate, cafoni. Votate Uzzi & Uzzi, «i nuovi Pisacane» venuti a sciogliervi dalle catene secolari dei borboni di Mediobanca e della Cgil. Da Jannuzzi a Meluzzi: due Italie, ma soprattutto due Forzitalie, si passano la mano e lo slogan nel collegio del Cilento, terra di cinghiali che caricano, cacciatori che sparano e contadini «ca' fune» che votano: a destra, nel nuovo blocco sociale di fine millennio che proprio qui ha uno dei suoi laboratori più avanzati. Il popolo che trent'anni fa osannò e poi abbatté Lino Jannuzzi - l'amico e «paroliere» di Giuliano Ferrara - si stringe oggi intorno al torinese di ritorno Alessandro Meluzzi, lo Sgarbi dei poveri, anzi dei «non garantiti», come li chiama lui citando Asor Rosa in comizi d'altri tempi che riempiono le piazze di giovani disoccupati e vecchi bottegai, al grido di «morte alle gabelle e abbasso i viceré». Iniziata due anni fa con l'espugnazione del foitino simbolico di Torino-Mirafiori, si può così dichiarare compiuta la conversione di questo psichiatra craxiano in «Di Vittorio della destra» (dice lui) o in sobillatore di masse non sindacalizzate (diciamo noi). Dovreste vederlo quando la macchina lo lascia nella piazzetta di municipi che si chiamano Bellosguardo, Buonabitacolo o Roccadaspide e «Di Vittorio» si fa largo fino al palco, offrendo le guance al doppio bacio di uomini con la coppola, matrone vestite di nero e ragazzi con la faccia cotta dal sole. Sono i pronipoti di quegli agricoltori un po' selvatici che scendevano a Na poh con la fune (ca' fune, appun to) e che quando i trecento mazzi' mani «giovani e forti» della poesia sbarcarono a Sapri per «liberarli», aiutarono le truppe borboniche nel massacro, assurgendo ad emblema perenne dell'insensibilità del popolino per le smanie rivoluzionarie delle élites. Ogni mattina Meluzzi passa in automobile davanti alla stele che ricorda Carlo Pisacane, si cerca il portachiavi di metallo nelle tasche e ripete ad alta voce: «Io non farò la tua fine» Poi va sul palco ad additare al ludibrio «i nuovi viceré: banchieri, industriali e sindacalisti della Triplice, alleati con D'Alema per continuare a negarci la libertà», mentre dall'altoparlante improvvisato sale una canzone più sedativa del solito (anzi no: come al solito) di Minghi, che invita a mozzare le teste coronate del Sud. I dialoghi con la folla si avviano con leggera diffidenza, perché l'accento del nuovo Pisacane è drammaticamente torinese e ogni volta ci vuole tutta la sua arte per trovare altri particolari su «papà che era di qui, vi ricorderete senz'altro quel signore che portava a spasso i cani randagi». Le domande che i «cafoni» rivolgono al loro liberatore raccontano un Mezzogiorno a secco di prebende e raccomandazioni, ormai disposto a mettere sotto i piedi le conquiste sindacali in cambio di qualcosa che assomigli ad un lavoro. «Mia figlia», si lamenta uno, «fa la stiratrice a Reggio Emilia per un milione e mezzo al mese. Tornerebbe a stirare nel suo paese a metà stipendio, ma il sindacato dice che non si può». E sono fischi al sindacato, applausi a Meluzzi e facce congestionate che gridano con lui: «Li-ber-tà, li-ber-tà», sommergendo la voce di Minghi, per fortuna. Questo è «il nuovo Pisacane». Poi c'è quello vecchio: Lino Jannuzzi, il primo a farsi eleggere qui nel '68, e con lo stesso slogan, salvo poi venir trombato la volta successiva per colpa di un comizio etilicamente adulterato. «Ci manca il lavoro», gridavano anche allora i contadini di Vallo Lucano. «E io ve lo porterò», rispose, preberlusconico, Jannuzzi. «Ma ci servirebbe il mare». «E io vi por terò anche quello)», tagliò corto il tribuno socialista, complice un vinello assatanato della zona, e fu la fine: Vallo dista dodici chilometri dalla costa, troppi anche per un miracolo. Ma fin dal dopoguerra nel collegio di Uzzi & Uzzi la campagna elettorale ricorda gli spettacoli del Bagaglino: Martufello allora era socialdemocratico e si chiamava Gigetto Angrisani. Girava per i paesi con un gallo sulla spalla e una spina elettrica infilata nel didietro del medesimo, chiedendo: «E' vero che il democristiano Fiorentino Sullo è nu' poco ricchione?:' La folla preferiva non impicciarsi e Angrisani al- lora interpellava il gallo. «Dimmelo tu: è ricchione?». Poi girava la manopola della corrente e la povera bestia cominciava a strillare. Come variazione sul tema, sventolava sul palco le mutandine della moglie di Sullo, a mo' di scalpo. Jannuzzi, vecchio goliardo (memorabile un suo intervento in finto arabo ad un congresso del psi), si adagia compiaciuto sopra i ricordi. Se Meluzzi rappresenta il vitalismo inesausto dei berlusconiani, lui ne incarna l'anima più politica, raziocinante e soffusa- mente pessimista. Tornato in politica dopo sei lustri e dieci trasmissioni con Ferrara, è stato spedito nel collegio più bassoliniano di Napoli, Secondigliano-Ponticelli, «perché quello buono procuratomi da Giuliano me l'ha sfilato Fini per darlo a Malgieri, il direttore del "Secolo d'Italia"». Rassegnato alla sconfitta, Jannuzzi passa il tempo al telefono con Ferrara, «la sola persona verso cui Berlusconi nutra complessi d'in feriorità», che verrà a dargli una mano nei rari comizi. Inganna il tempo osservando il dilettantismo al limite del grottesco che lo circonda. «A Ponticelli il nostro can didato alla Camera, un certo Galano, nessuno lo conosce. Di mestie re fa l'archeologo delle cellule, boh. Gli ho chiesto: "Scusi, archeologo, ma perché non si fa mai vedere in pubblico?". E lui, 'o candidato: "Sa, dottor Jannuzzi, io non mi occupo di politica"». A volte anche ai nuovi Pisacane casca no le braccia. Massimo Gramolimi Meluzzi e Jannuzzi in pista contro le «teste coronate» del Sud Slogan libertari e inni di Minghi Da sinistra: Alessandro Meluzzi e Lino jannuzzi
Luoghi citati: Bellosguardo, Buonabitacolo, Ferrara, Italia, Napoli, Reggio Emilia, Roccadaspide, Sapri, Torino
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