Tre anni e mezzo a Mancini: «Favorì i boss» di Francesco Grignetti

* Palmi, per i giudici l'ex leader socialista avrebbe avuto collusioni con una cosca calabrese * Palmi, per i giudici l'ex leader socialista avrebbe avuto collusioni con una cosca calabrese Tre anni e mezzo a Mancini: «favori i boss» Condannato per concorso esterno in associazione mafiosa PALMI (Reggio Calabria) DAL NOSTRO INVIATO Mafioso. Giacomo Mancini traballa sotto il colpo. Il tribunale di Palmi l'ha condannato a tre anni e mezzo per concorso esterno in associazione mafiosa. Più un anno di libertà vigilata e cinque di interdizione dai pubblici uffici. Esplode: «Giustizia non è fatta». Ma recupera immediatamente: «La freddezza è la mia sfida». Esce dal tribunale tra gli applausi. Sbotta invece il figlio Pietro: «Comunisti!». E' una sentenza tutta al femminile, quella che condanna il vecchio leone socialista alla vigilia degli ottanta anni. Sono infatti tre donne in toga - presidente Miranda Bambace, giudici a latere Bianca Serafini e Renata Sessa - che per cinque giorni e cinque notti hanno dibattuto il destino e l'onore di Mancini, per poi farlo precipitare all'inferno. I pm Salvatore Boemi e Giuseppe Verzera avevano chiesto una condanna a cinque anni. La corte acconsente. Applicano, le tre toghe, appena uno sconto di un anno e mezzo. Si sente confusamente, nell'incespicare della lettura, che i giudici hanno creduto alla collusione con la cosca Iamonte e non ai patti con la cosca Barbaro. Ma sono particolari che in questo momento interessano ben poco all'ex segretario del psi. Lui, Mancini, elegante in giacca e maglione, attende l'ingresso della corte guardando nel vuoto. Zittisce con un gesto della mano la moglie, Vittoria, che per un attimo parla a voce troppo alta. Incrocia lo sguardo con la figlia Giosi e il figlio Pietro. Non parla. Saluta appena il suo avvocato, Enzo Paolini. Tantomeno degna di uno sguardo il suo accusatore, il giovanissimo Verzera. Un giudice che Francesco Cossiga - che pure è passato di qui per testimoniare a suo favore chiamerebbe «ragazzino». Verzera tradisce l'emozione camminando a grandi passi per l'aula, la toga a nascondere a malapena i jeans. Tra i due nessun saluto. Dieci metri di distanza, cin¬ quanta anni di differenza. Manca dall'aula l'altro grande accusatore, Salvatore Boemi. Un pubblico ministero di grande esperienza. E' lui il vero nemico di Mancini, che si busca l'epiteto di inventore di un «teorema assurdo che si fonda su pentiti da strapazzo, raccattati nelle peggiori carceri italiane, e sul condizionamento di un apparato poliziesco-politico». La grande partita a scacchi tra Boemi e Mancini è durata quasi tre anni. Uno a raccogliere prove e sentire pentiti, l'altro a difendersi e a rivendicare l'onestà del suo passato. C'è ora agli atti una sentenza di colpevolezza. Ma anche il risultato paradossale che Mancini è stato difeso in aula dai suoi nemici (politici) di un tempo. Non è un caso, infatti, che a testimoniare a suo favore sono stati vecchi comunisti come Emanuele Macaluso e Abdon Alinovi, o vecchi democristiani come Francesco Cossiga. Nessun socialista. Semmai qualche figura di spicco: lo storico Rosario Villari e l'antropologo Luigi Lombardi Satriani, che tra parentesi è un candidato dell'Ulivo, il procuratore Agostino Cordova, il direttore del «Manifesto» Valentino Parlato. Mancini era accusato non per l'affiliazione a una cosca, ma per il «concorso esterno». Vale a dire un appoggio intermittente alla criminalità organizzata. Scambio di voti in cambio di appoggi giudiziari. Almeno questo raccontavano i pentiti. E lui ora protesta: «La presidente, bontà sua, mi ha assolto da qualche collusione. E' una cosa indegna, infame, quella che è avvenuta nei miei confronti. Ma non voglio esagerare. E' questa la situazione italiana. Una situazione in cui la giustizia è in mano ai pentiti bugiardi». Mantiene la sua lucidità, Mancini. Abbraccia la moglie. Poi si concede alle telecamere. E si vede, mentre parla, che intanto pensa vorticosamente alle prossime mosse. «Non ho fiducia, in questo momento, della giustizia italiana». In testa ha il chiodo fisso del capro espiatorio. Lo ripete più volte. «Non ci sto». Attacca. «Gli inquirenti, condannando me, hanno assolto la mafia. Ci sono in Calabria parlamentari collusi con la mafia, uomini politici che si sono arricchiti, magistrati indegni che governano ancora la procura di Reggio, nei confronti dei quali niente è avvenuto». Ma sullo sfondo c'è anche il caso-Andreotti. Un altro politico accusato di concorso esterno alla mafia. Qualcuno aveva definito questo processo come il battistrada di Palermo. «Andreotti non c'entra niente. Io conosco la mia vita, la mia situazione, conosco da chi dipendono i signori magistrati inquirenti, da chi hanno preso ordini. Ma mi farò sentire. Mi pare di aver capito che sono stato interdetto per non so quanti anni. Cinque? Mi danno lunga vita! Ma l'interdizione dai pubblici uffici non comporta l'interdizione dalla campagna elettorale. Parteciperò». Francesco Grignetti *

Luoghi citati: Calabria, Palermo, Palmi, Reggio, Reggio Calabria