Apparizioni neorealiste di Marco Vallora

17 Le fotografie rubate del «Diario italiano» di Herbert List Apparizioni neorealiste // sonno di De Sica e la brillantina di Pasolini ~T~| TORINO 1 CCASCIATO come una mail rionetta d'una pièce di ri Rosso di San Secondo, lie*AI veniente disamorato della vita. La luce che piove dalla finestra creando marezzature irrequiete di seta sul suo completo buono di grigia vigogna, in un teatrino allucinato di manichini metafisici e busti rinascimentali, Felice Casorati tradisce la sua aristocratica nausea secessionista e un filo morbido di vaporante morbosità, che mai saggio critico di quegli anni avrebbe saputo wuminare con tanta perspicacia. Basterebbe un'immagine come questa a rivelare il grande artista, il sottile anatomista di un'Italia in confusa gestazione. Ma sono per lo più straordinarie le fotografie che la Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto schiera, in questa tappa, la più ricca del Diario Italiano di Herbert List, il fortunato rampollo amburghese che abbandonò la ditta paterna di importazione di caffè sudamericano, per disseminare da «figlio del Sole», quale lo definì il poeta Stephen Spender, il suo Grand Tour fra i marmi del Mediterraneo. Questa sua mostra è affascinante proprio perché fotografa, istantanea dopo istantanea, la sua conversione dall'algida, e pur geniale, stagione Anni Trenta, decorata dai rocciosi corpi efebici scolpiti nel marmo della luce greca, alla stagione più improvvisata e «partenopea» della folgorazione italiana: caratterizzata dallo «scatto» fortunoso e fortunato, alla Carrier Bresson. Dell'istantanea spesso sporcata da qualche straccio miserabilista, ma senza mai rischiare un estetismo da Terra Trema, rianimata da qualche voluto incidente d'immagine mossa col piccolo guappo che attraversa la scena scompigliando l'inquadratura marmorea, ed una sensibilità simpatetica e complice, sempre, verso l'Italia neorealista inseguita dall'amico De Sica (con cui collabora per il libro Napoli e per film come Stazione Termini). Interessante il parallelo che Luigi Malerba, nell'introduzione all'elegante volume Leonardo che funge da catalogo, instaura con il Montaigne che lascia «le sagge riflessioni degli Essais per registrare avventurosamente nel suo Viaggio in Italia la vita delle locande, delle strade, dei monumenti». (E' un fotografo da letterati, del resto, List: Spender, Tournier, il mozartiano Hildesheimer, ed anche un Hellas con testi di Hofmannstahl. Questo curioso maestro dell'immagine che, invecchiando, smette la sua frequentazione fotografica per girare l'Italia in cerca di disegni manieristi). Il grande occhio dilatato di un tonno dopo la mattanza, a Favignana, quasi la metafora funebre di una deposizione luttuosa dello sguardo, che insinua il suo serpentinato calumino ottico tra le macabre cartapecore dei Cappuccini mummificati. «L'obiettivo non è dotato di obiettività» amava dire, alle soglie del calembour. E parla- va spesso anche degli «sforzi per cogliere la magia in ciò che appare». Una Roma notturna, bagnata di piovose ombre cinematografiche, allucinata di fantasmi. L'ombra del David di Donatello che si proietta minacciosa su una Firenze non ancora guastata dal turismo di massa. Una bucolica Bomarzo avviluppata di pecore appena uscite da un Claude Lorrain, la smangiata fisionomia d'una vecchietta partenopea ancora più scheletrica del teschio di Fanzago che «firma» la Chiesa del Purgatorio. E spesso dall'alto della casa dell'amico Max Scheler, a Trastevere, l'indolente List ingabbia il fuggire svampito della realtà, con la disinvoltura sbilenca con cui Caillebotte sceglieva le sue vedute d'appartamento. Su una di queste «vedute» si stampa il ricciolo imbrillantinato e fresco di barbieria di un giovane Pasolini, appena disceso dal Friuli a vivere il suo disperato e furioso «romanzo» romano. E che meraviglia quel fotogramma strappato di De Sica, a mezzo d'una scalinata, che indossa sulla bella faccia di viveur da casinò una sua maschera dolente e allarmata, mentre intorno la sua Napoli si ferma, incantata e guappa, ad ammirare il Commendatore. O De Sica appisolato, nella coltre bianca del suo trench: sipario una piccola flottiglia di marinaretti scuri, come in un musical di Demy. Quindi gli incantati spettri della Casa di Riposo Verdi, ombre ingessate di fronte alla piccola bara rispettabile d'una radio che rigurgita il fiele della memoria, «immobili allegorie dell'udito» come ha scritto Guenther Metken. E poi le unghie grifagne, intasate di nicotina e studio e trascuratezza di Croce, e Marino Marini che balza selvaggio su uno dei suoi bronzei cavalli, per dimostrare «quanto sono naturalistiche le mie sculture», e il monumento di carne e scialletti e protervie di De Chirico, che respinge l'obiettivo come un nemico. E Fabrizio Clerici, dal profilo di diaspro, sfinge fra le sfingi. Mentre il critico Carrieri, arreso sulla sua poltrona, non è che una vestaglia dì raso, un sospiro, sottratto alla sua indolente giornata di poeta. Marco Vallora Il parco di Bomarzo in una foto del «Diario italiano» di Herbert List