Topi e cibi di Oldenburg l'altra faccia della pop-art

Bonn, imponente rassegna d'un maestro ribelle Bonn, imponente rassegna d'un maestro ribelle Topi e cibi di Oldenburg l'altra faccia della pop-art SBONN PPRODA alla Kunst-und Austellungshalle, fino al 12 maggio, l'imponente mostra antologica di Claes Oldenburg, 163 numeri fra oggetti e carte, circolata l'anno scorso in Usa fra la National Gallery di Washington, il Museum of Contemporary Art di Los Angeles e il Guggenheim di New York. A cura di Germano Celant, è evidente anche dal sontuoso catalogo la volontà di rievocare e riproporre la stagione d'oro dell'invasione ed egemonia Usa in Europa. Esordiente a New York, assieme a Jim Dine, nel 1960 con le cartapeste e le carte di giornale strappate della mostrahappening The Street, presente con gli altri «ambienti» di Dine, Rosenquist e Segai da Sidney Janis nel 1963 con la Camera da letto che viene riproposta in mostra, Oldenburg fu uno degli otto moschettieri che cavalcarono fra il padiglione americano ai Giardini e la Guggenheim di Peggy alla Biennale di Venezia del 1964. Dopo la prima ondata dell'espressionismo astratto, fu quello il momento dell'esplosione ancora più aggressiva e colonizzante della «pop art», sotto le vesti alquanto mistificanti del disvelamento delle ossessioni della società consumistica. Ma già le prime opere in mostra, i cartoni e i frammenti di giornali di The Street e i vestiti, cibi e dolciumi, in mussolina gessata e dipinta a lacca su armature di fil di ferro esposti in The Store - il Negozio allestito nel 1961 nello studio di Lower East Side -, evidenziano l'antitesi di Oldenburg rispetto alla freddezza tecnologica, ripetitiva, pittotipografica dello standard «pop» di Warhol e di Liechtenstein e di Indiana, di Rosenquist e di Wesselmann, figli e nipoti di Benjamin e di McLuhan. La fisicità sfatta e «carnale» e la pesantezza brutale e violenta delle lacche colorate dei suoi oggetti, la loro compromissione con la nascita dell'«happening» («Io ebbi anche la sensazione che a New York non si potesse fare quasi nulla che non avesse a che fare in qualche modo con il teatro») sono assai più europee - così come in parallelo la pittura di Jasper Johns -, più vicine all'eredità dadaista e al «nouveau réalisme». Sugli inizi di Oldenburg ha un peso evidente l'esempio di Dubuffet. Decisamente più intellettuale dei compagni di strada (la cartapesta C-E-L-I-NE è una delle prime opere in mostra), egli dichiara nel 1961: «Io sono per un'arte che si sviluppa senza sapere in generale di essere arte, un'arte con la chance di iniziare dal grado zero. Sono per un'arte che si avvolge nel fango quotidiano ma che tuttavia alla fine si muove sopra di esso. Sono per un'arte che prende la sua forma dalle linee della vita; che si aggroviglia e si distende e cresce e sputa e suda ed è pesante e ruvida e grossolana e morbida e stupida come la vita». Se l'espressionismo astratto fu parallelo ed empatetico con gli scrittori della «beat generation», la sontuosa repellenza della materia e dei materiali del primo Oldenburg anticipa di un decennio 1'«ordinaria follia» di Bukowski. Certo, dall'algida nettezza delle sale della Halle di Bonn emerge una forte contraddizione. In quelle pagine di poetica del 1961, così impregnate di Lower East Side con le sue piccole gallerie d'avanguardia, l'artista aveva proclamato, fra dadaismo e intuizione di un'arte «punk»: «Io sono per un'arte che è politico-erotico-mistica, che fa altre cose che non sedere sul suo culo nel museo». Qui a Bonn quei vestiti e biancherie intime e gelati e cioccolati e classica bandiera americana e marchio della Pepsi Cola strappati dallo Store e scanditi in ordine sulla nuda parete, sembrano e sono bellissime ma povere, disinnescate farfalle appuntate nelle teche del mercato contemporaneo di alto livello dollaro-marco. Meno stridenti, in quelle sale, risultano, illustrando la fase successiva lungo gli Anni 60, gli oggetti tecnologici «molli», macchine per scrivere, telefoni, motori in vinile, tela, kapok. Senza inutilmente scomodare gli orologi molli di Dalì, è indubbia in queste nuove forme e scelte, con prevalenza del bianco (le versioni «fantasma») e del nero lucido, l'ascendenza surrealista, ma senza intellettualismo: la polemica, autentica, efficace, contro l'arroganza della forma tecnologica netta, funzionale, «hard», diventa anche, in perfetto spirito dada, rovesciamento del concetto stesso di scultura come trionfo plastico e volumetrico, ribaltato in mollezza e fluidità. Il senso del gioco trasforma progressivamente le sale in una grande Disneyland dell'oggetto quotidiano enfatizzato, fino alla colossale Spina elettrica a tre vie in vinile e gomma, appesa nel salone centrale sopra al simbolo-mito dell'opera di Oldenburg: la testa («volto» e «facciata») di Geometrie Mouse (Topo geometrico): «Il GM è un'apparizione notturna e quindi la controparte di Ignatz (in Krazy Kat), che è un topo bianco in un mondo notturno. GM è un topo notturno in un mondo bianco». Sulla piazza davanti alla Halle, la monumentale Houseball, la Palla-casa di tela e resina su armatura d'alluminio, rievoca lo straordinario spettacolo-festa: «Il Corso del Coltello» a Venezia nel 1984. Quel momento di gloria del mecenatismo del Gruppo Finanziario Tessile, così come l'attuale incoronazione americano-tedesca che si concluderà in agosto alla Hayward Gallery di Londra, sono lo sbocco fin troppo brillante di una strada iniziata con ben altra grinta anarchica nell'East Side. Marco Rosei Una fisicità sfatta e carnale che si oppone alla freddezza di Warhol e Liechtenstein Arte L A destra: «Tube supported by its Contents», opera del 1985 di Claes Oldenburg. A sinistra: la «Houseball» (Palla-casa) del 1996