IL TRIO CHUNG TRASLOCA Non si può tenere al Lingotto il concerto della Philharmonia di Leonardo Osella

IL TRIO CHUNG TRASLOCA IL TRIO CHUNG TRASLOCA Non si può tenere al Lingotto il concerto della Philharmonia di relativa serenità per il musicista, dopo i primi gravi sconforti dovuti alla sordità. Beethoven era innamorato della giovane contessa Josephine Brunsvik, che proprio nel gennaio del 1804 era stata lasciata vedova dal conte von Stritetz, e // Trio Chung suona al Teatro Regio con la London Philharmonia pensava seriamente a sposarla. La febee vena compositiva si incontrò con un'occasione fortunata: la richiesta avanzata dall'arciduca Rodolfo d'Austria, pianista e allievo di Beethoven, che eseguiva con duigente volontà i Trii scritti dal maestro con il violinista Cari August Seidler e con il violoncellista Anton Kraft. Come sottolinea Luigi Della Croce, quest'ultimo era il più agguerrito dei tre esecutori e perciò nel Triplo Concerto proprio il violoncello si sobbarca il ruolo più impegnativo. Lo sottolinea anche Giorgio Pestelli: «Il Triplo è un'opera fresca e gioviale, piena di spunti umoristici desunti dal tardo mondo settecentesco: il pianoforte vi ha una presenza intimidita di fronte al vigore del violoncello e del violino, rispetto ai quali ha quasi il ruolo di equilibratore e di elemento connettivo nello spirito della musica da camera: sintomatico è il suo impiego nel breve movimento centrale, dove non riprende mai il tema principale ma svolge, per lo più a mani parallele, un semplice tessuto di continuità armonica». Nella seconda parte della serata, Myung-Whun Chung lascerà la tastiera e impugnerà la bacchetta per affrontare una delle pagine più popolari e amate dal pubblico, la «Sinfonia n. 1 in do minore op. 68» di Brahms. E' un lavoro dalla lunga gestazione, ben quattordici anni, a causa delle titubanze del compositore nell'affrontare una forma musicale così complessa. La Sinfonia fu a lungo accostata anche sotto il profilo stilistico all'ultimo Beethoven, sull'onda di una vistosa assonanza del Finale con la «Nona»; ma qui il linguaggio brahmsiano, come osserva Sergio Martinotti, «è ben altrimenti ricco di modulazioni e calato sostanzialmente in una dimensione più Urica che drammatica». Leonardo Osella

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