NON INGOLFATE LA SCUOLA di Anacleto Verrecchia

ARTURO CÀIIONI ARTURO CÀIIONI chio nel mondo, dello studio romano Sonia Natale. A parte, la collezione di libri e non-Libri fuori commercio, di cataloghi e materiali anche pubblicitari, dedicata alla storia della nostra industria dall'Unità d'Italia a oggi: qui è esposta una scelta di 160 opere, su un corpus di duemila opere messo insieme dal libraio Andrea Tomasetig. Una mostra nella mostra, un'esplorazione in un territorio ancora per gran parte sconosciuto, un tentativo di diffondere ulteriormente, nel mondo della cultura, la cultura che nasce con e nell'industria e che viene pure promossa dall'industria. Quasi commosso davanti allo stupefacente Manuale tipografico del cavaliere Gian Battista Bodoni (1818, legatura ottima, 80 milioni) della parigina libreria Chamonal, sosta l'editore Franco Maria Ricci: «Ne ho già due, di questi manuah confida -. I miei Bodoni, tutti libri stampati da Bodoni, sono circa 900: una sua pagina è un tempio greco, una facciata palladiana, e una sua lettera è come un Picasso con molto bianco e poco nero. Manuzio copiò la calligrafia degli amanuensi, Bodoni fu il primo a rifarsi alle lapidi... Una ristampa di questo manuale in vetrina l'ho pubblicata nel '65 dopo due anni di lavoro: in quattro mesi ho venduto le 900 copie. Per questo ho fatto l'editore: per fascinazione bodoniana, per trasporto estetico.. Mi illudevo che fosse un mestiere facile. "Sei pazzo" mi dicevano... Io dovevo fare il geologo». Molto da raccontare ha un gentiluomo napoletano, Mario Scogna¬ miglio, della libreria milanese Rovello: «La Mostra del Libro antico l'ho inventata io, e per realizzarla mi sono messo d'accordo con Marcello Dell'Utri, il bibliofilo amico di Berlusconi. Vero, la Mostra oggi non ha rivali nel mondo, ma faccio una piccola critica: i libri sono bellissimi ma pochi riescono ad abbordarli. Molto cari». Scognamiglio ha fondato l'Aldus Club, che raccoglie 300 bibliofili: alcuni di loro espongono oggi nella Sala Puccini del Grand Hotel et de Milan alcune rarità. C'è per esempio la «Bibliotheca semiologica curiosa, lunatica, magica et pneumatica» di Umberto Eco, dove il filosofo rende omaggio a Joannes Trithemius, umanista e cabalista tedesco, abate di fine '400, con preziose edizioni della sua Polygraphia. Con Eco, Scognamiglio va a braccetto: «E' Umberto l'attuale presidente dell'Aldus. Il primo fu Sciascia: sapeva che stava morendo e la mia offerta lo fece felice per le ultime 48 ore... Quando ho cessato di pubblicare YEsopo, rivista storica per bibliofili, è stato Eco che m'ha convinto a riprendere. "Ti faccio articoli gratis" m'ha detto. E difatti nel nuovo numero appena uscito c'è il suo Del vandalismo democratico, in cui se la prende con gli sfasciatori di libri, quelli che strappano illustrazioni da antifonari e altri volumi antichi per decorare i salotti. Eco lancia un appello: basta con lo scempio, non compriamo più un solo foglio che venga da un libro. Sottoscrivo». Claudio Altarocca Si è svolto la settimana scorsa a Bologna il convegno «Apprendimento e scuola nella società complessa», organizzato dal Cidi in collaborazione con la Paravia. Pubblichiamo alcuni jxissi della relazione di Tullio De Mauro, dove siqffronta in particolare il tema della riforma della scuola in rapporto alle scelte dei libri di testo. IL partito della scuola in Italia può tirare un sospiro di sollievo? Il partito della scuola oggi è erede di una tradizione di pochi nomi illustri, come, di generazione in generazione, Francesco De Sanctis o Antonio Labriola o Gaetano Salvernini o Guido Calogero e Persico. Nei nostri anni ha raccolto parecchi insegnanti, naturalmente, e pochi nomi noti: qualche economista come Paolo Sylos Labini o Fiorella Padoa Schioppa, qualche storico come Giuseppe Talamo, pedagogisti non routinari come Maria Teresa Gentile, Aldo Visalberghi, Raffaele Laporta o Benedetto Vertecchi, qualche imprenditore, come era Giancarlo Lombardi, due o (abbondiamo) tre giornalisti, qualche giudice dei minori, qualche prete che, tra lo Zen e Pozzuoli, non ha dimenticato don Lorenzo Milani, qualche giovane sindacalista femmina che, anche se l'ha conosciuto solo in fotografia (ce n'è ancora una in una saletta riunioni della Cgil), non ha dimenticato Peppino Di Vittorio. Un partito smilzo, come si vede, che sta di traverso alle forze politiche (in vario senso) e che ha cercato e cerca di dare voce al bisogno di istruzione che ha questo nostro paese.[...] Per questa lunga inerte disattenzione dei politici professionab il partito della scuola è stato costretto a logorarsi in pluridecennali, talora secolari battaghe legislative e, a leggi approvate (ogni cinquantanni è successo), in altrettanto lunghe e faticose battaglie amministrative, perché le leggi diventassero fatti reali. L'istruzione obbligatoria prevista nel 1859 dalla legge Casati comincia ad acquistare gambe aimrninistrative e finanziarie solo con Giolitti, ma diventa realtà operante per il 100% dei bambini italiani soltanto nella seconda metà degli Anni Settanta di questo secolo. L'istruzione fino a 14 anni prevista dalla Costituzione nel 1948 non è ancora realtà per circa il 10% dei ragazzi italiani, per quasi il venti per cento dei meridionali, per il 35% dei ragazzi delle quattro maggiori città meridionali. La riforma della secondaria superiore è in discussione in Parlamento dal NON INGOLFATE LA SCUOLA Testi e programmi troppo dilatati 1969 e abbiamo quasi smesso di sperare in una legge in materia.!...] Alla scuola italiana il malo esempio è venuto dalla fascia formativa più alta. Si lamenta giustamente che la nostra università faccia fuori due su tre iscritti al primo anno. Ma non sento lamenti' per l'altro fatto: il trentadue per cento che arriva alla laurea solo in misura dell'uno per cento lo fa negli anni curricolari previsti. Di anno in anno la mediana del ritardo dei laureati si è andata innalzando. La percentuale più grossa raggiunge la laurea in un tempo doppio del previsto. Nessun mistero in ciò. Si confrontino i programmi di esame dagli Anni Cinquanta, quando la percentuale dei fuori corso era fisiologica, a oggi, e si vedrà che l'esame oggi più banale, non parlo dei più impegnativi, comporta libri e letture più che doppie rispetto non agli esami banali, ma agli esami più impegnativi di quarant'anni fa. Fruendo di una larga libertà, e in mancanza di ogni serio coordinamento della didattica, dinanzi al dilatarsi dei saperi ogni singolo docente ha creduto bene di accrescere progressivamente la massa di volumi richiesti per ciascun singolo esame. E' a mio avviso una risposta sbagliata, nella formazione universitaria e a ogni altro livello. E' certo inseguendo una risposta del genere che la nostra editoria scolastica ha imboccato la strada dei libri sempre più massicci ed estesi. Una letteratura itahana in quattro volumi che va per la maggiore ha raggiunto il ragguardevole peso di nove chili e mezzo. E' così: i testi, i buoni testi, fanno scuola non meno dei buoni insegnanti e dei buoni programmi. Ma non devono far scuola per l'aspetto negativo della loro crescente dilatazione. Alla valanga informativa che ci avvolge la scuola, come l'università, come l'editoria, non deve credere di poter rispondere dilatando il sapere che presume di trasmettere. Deve rispondere cercando di capire, che cosa è veramente necessario, di tutto ciò che si pretende di insegnare. Deve, dobbiamo cercare il niinimo comune indispensabile a gestire criticamente, responsabilmente la vita nelle società dell'informazione. Dilatare a dismisura l'offerta informativa comporta invece non consentire mai di andare in profondità. Significa costringere anche lo studente e anche il professore a farsi Homo currens, cioè superficiale, cioè forzatamente acritico e, se tutto va bene, dotato di un sapere puramente verbabstico. Non è davvero quel che ci serve in società dell'informazione che per questa loro natura sono tormentate e minacciate da torrenti di parole e di stereotipi. Dobbiamo cercare altre strade. Oltre la superficialità indotta dalla dilatazione delle materie e dei testi di studio, un'altra strada c'è: ed è la via del lavorare di qualità, in profondità e non in una impossibile rincorsa all'estensione. Se voghamo dare attraverso la scuola una formazione che consenta di vivere produttivamente nelle società dell'informazione non dobbiamo mirare a dare una impossibile e sempre dilatanda carta dell'Impero dei saperi che cerchi d'essere grande quanto l'Impero stesso. Ma dobbiamo dare bussole, dobbiamo dare punti cardinali, dobbiamo dare l'esperienza viva di come si organizza e come si fa un viaggio. Dobbiamo dare il gusto di viaggiare e, se ci piace, dove ci piace, sostare. Fuori di metafora, dobbiamo dare la capacità di controllare criticamente i flussi informativi cui siamo esposti per imparare a utilizzarti, trattarli, volgerli a quel che responsabilmente ci pare il meglio. Aggiungere materia a materia, libro a libro, capitolo a capitolo non serve. Serve acquisire e fare acquisire la capacità di muoversi entro lo spazio culturale in cui ci collochiamo. Serve dare la capacità e - non dovremmo mai dimenticarlo - la voglia e il gusto di sapersi muovere e muoversi tra le forme più immediate di cultura, quelle più vicine a noi, e le forme più remote e aliene, tra le forme più rudimentalmente immediate (preziose per sopravvivere) e le forme più complessamente costruite, tra le forme affidate a questa o a quella tipologia di produzione e ricezione, dalla manualità alla lettura, dalla visualità e plasticità al silente astratto ragionare. Tullio De Mauro TROPPE MANI PESANTI PER GESTI LEGGERI UNA batteria di professori hanno fatto un «dibattito seminariale» sui gesti o, come essi dicono con più eleganza, sulla «gestualità». Poi hanno raccolto i frutti del seminato e ne hanno ricavato un libro: Il gesto (Ponte alle Grazie, pp. 357, L. 35.000). Niente di male, dal momento che ognuno è libero di ammazzare come vuole anche un eventuale eccesso di ozio. C'è solo da domandarsi se studiare il significato di un gesto, magari priapesco, sia così importante da richiedere l'intervento dello Stato. Infatti il volume, come si legge nel risguardo, è stato pubblicato «con il contributo del Cnr», vale a dire con il denaro pubblico. Tutto, nella vita, ha un significato e tutto può essere oggetto di tuia trattazione. Nel 1751, per esempio, il francese Pierre-Thomas-Nicolas Hurhault pubblicò un libro, quanto mai eloquente, dal titolo L'art de peter o Ars crepitandi. Ma lo fece per conto suo e non a spese del contribuente. Se viceversa lo Stato deve mantenere dei professori che si dilettano a studiare i turchi che urinavano «accosciati», oppure le figure a «cossim cacans» del duomo di Modena, allora altri professori potrebbero a buon diritto pretendere un contributo per fare un «dibattito seminariale» anche sui caguru, come in Sardegna chiamano i pastori che si acquattano sotto il mantello per scaricarsi il ventre. Gli autori, tra ordinari, associati e associandi, sono una dozzina. Troppi, direi, per un libro che tratta di gesti. Anche l'attacco o meglio 1'«apertura del problema» è a due mani, perché reca le firme del professor Sergio Bertelli e della ricercatrice Monica Centanni. Poi seguono i vari saggi o contributi, come si dice in gergo universitario. Ne vien fuori una specie di picnic, dove ognuno mette la sua parte. Anzi no, è un picnic dove quelli che compilano i saggi mettono le parole e •'ìelli che essi citano mettono la txstanza. Quasi ogni frase, infatti, è intercalata da uno o più richiami bibliografici. A volte si ha addirittura l'impressione di avere sotto gli occhi non già un libro, sia pure scritto a molte mani, bensì un repertorio bibhografico. Faccio un esempio: il saggio di Patrizia CasteUi, che tratta della «ostensione della vulva nel Medioevo», ha diciassette pagine di testo, però pieno zeppo di riferimenti come una sentenza di tribunale, e sei di bibhografia. E siccome la stragrande maggioranza degli autori che cita sono stranieri, se ne deve dedurre che in Itaba c'è scarso interesse per la «vulva», ostensa o nascosta. Eppure il tema scelto dalla Castelli si presterebbe a una trattazione scintillante, se svolto con penna agile. Ma l'autrice è afflitta dallo spirito della pesantezza accademica. Ciò deriva soprattutto dal fatto che si lascia dominare dalle letture, anziché dominarle con uno sguar- «II gesto» esce da Ponte alle Grazie do d'insieme. Inoltre il continuo richiamarsi a questo o a quell'autore azzoppa il periodo e rende insopportabile la lettura. Un sottotitolo del saggio dice: «L'ostruzione della vulva». Ma siccome si parla solo di ostensione, è probabile che si tratti di un refuso. Peccato: se si riuscisse a ostruire per davvero quella specie di tramoggia che assorbe e macina le nostre forze, saremmo salvi. Anche gU altri saggi sono confezionati nello stesso stile e recano tutti la stessa marca di fabbrica. Non per niente la scuola del professor Sergio Bertelli, dalla quale sono usciti, si chiama «laboratorio di storia». Evidentemente esiste una catena di montaggio anche per la storia. E se abolissimo tutte le facoltà umanistiche, che costano molto e non servono a niente? Lo Stato ha bisogno di tecnici, di ingegneri, di chimici e di medici, non di saggisti, di storici, di letterati o di filosofi da università. Le uniche facoltà che si giustifichino sono quelle scientifiche, perché qui si tratta di trasmettere dei dati certi; ma quelle umanistiche, se ci si pensa bene, sono superflue. Prezzolini scrisse: «Avete mai pensato alla vanità dell'insegnamento delle letterature? Dello scrivere storie? Della critica letteraria e artistica?... Le letterature non si insegnano e non si imparano. Si rivelano con il bisogno di scrivere». Come le cattedre di teologia non hanno mai prodotto un santo, così quelle di filosofia, di letteratura o di storia non produrranno mai un filosofo, uno scrittore o uno storico. Già Platone, il principe dei filosofi antichi, diceva che la filosofia è una disciplina che non si può insegnare. Così la pensava anche Wittgenstein, che riteneva «assurde» le cattedre di filosofia. Lo stesso vale per altre discipline umanistiche, le quali tanto più prosperano quanto più sono lasciate alla passione di chi vi è inclinato. Statabzzare il Parnaso significa renderlo infecondo. Wagner, un autodidatta, diceva che la Germania era diventata spiritualmente sterile da quando era stata «professorizzata». La vera cultura va cercata fuori dalle sue istituzioni, così come i libertini cercano l'amore fuori dal matrimonio. le bazzoffie accademiche vanno certamente bene per i concorsi, però sono di impiccio e anche di nocumento alla cultura. Anacleto Verrecchia

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