«Un bimbo nel lager della mafia»

«Un bimbo nel lager della mafia» Agghiacciante ricostruzione della lenta morte del piccolo Di Matteo, figlio di un pentito «Un bimbo nel lager della mafia» «Era una larva umana prima di essere ucciso» LA CRUDELTÀ' DI COSA NOSTRA ■PALERMO L bambino era ridotto a una larva umana». E' arrivato in queste condizioni - pelle e ossa, gli occhi sgranati - al suo ultimo giorno di vita il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio undicenne del pentito di mafia Santino Di Matteo. Un bambino rapito alla sua famiglia per convincere il padre a ritrattare le sue accuse, tenuto segregato per quasi due anni, poi condannato a morte, strangolato, eliminato in un bidone di acido. Una morte che risale all'undici gennaio scorso, e non, come si pensava, al 1995. Adesso si sa quasi tutto su una delle più sconvolgenti cronache del terrore della mafia siciliana. Nuovi particolari si aggiungono al racconto agghiacciante fatto ai magistrati della direzione distrettuale antimafia palermitana diretta da Gian Carlo Caselli e agli 007 della Direzione investigativa antimafia. Il narratore principale è sempre Giuseppe Monticciolo, il muratore di 27 anni pentito dell'ultima ora, che con le sue dichiarazioni sta facendo luce sul calvario dell'indifeso Giuseppe, entrato nell'elenco dei martiri vittime dei boss. Monticciolo ha dichiarato che il bambino «era ridotto a una larva», dopo quasi due anni di prigionia, da quando era stato rapito da una squadracela del boss Giovanni Brusca, il capo «famiglia» di San Giuseppe Jato. Portandogli via il figlio, Cosa nostra riteneva di riuscire a far ritrattare Santino Di Matteo, fargli rimangiare le terribili accuse ai boss e le sue ammissioni di responsabilità personale. A cominciare dalla confessione di aver partecipato alla strage di Capaci il 23 maggio 1992, in cui furono massacrati Giovanni Falcone, la moglie e tre poliziotti che li scortavano. Invece «Mezzanasca» (in dialetto, «mezzo naso») inghiottì l'amaro, continuò la sua vita infernale - viveva lontanissimo e senza contatti con la moglie e gli altri familiari, terrorizzati da un'eventuale ulteriore vendetta trasversale -, non volle cedere. E tuttora, non ha ceduto. Perseguitato dal rimorso di aver causato la morte del figlio, Santino Di Matteo a quanto pare continua a tener fede all'impegno preso con lo Stato, e collabora senza alcuna riserva con la giustizia, con la società. Giuseppe Monticciolo, lo stesso che ha fatto scoprire nelle campagne di San Giuseppe Jato due bunker sotterranei stracolmi di armi, munizioni ed esplosivo (anche un lanciamissili e 10 bazooka), ha aggiunto sconvolgenti dettagli sulla prigionia di Giuseppe, trascinato da un casolare all'altro attorno al paese, che si trova a 35 chilometri da Palermo. Era il novembre del 1993, quando fu rapito con uno stratagemma in un maneggio di Monreale poco distante da Altofonte. Fu prelevato da alcuni «picciotti» di Brusca, che si finsero agenti della Dia andati a prenderlo per accompagnarlo dal padre che desiderava vederlo. Il bambino disse: «Sangue mio, sangue mio, andiamo subito», e li seguì. Nel racconto fatto da Monticciolo, che afferma di averlo visto più volte, emerge una descrizione di Giuseppe che fa venire in mente i prigionieri dei lager nazisti. Pelle e ossa, gli occhi sgranati, lo sguardo allucinato. Giuseppe sarebbe stato strangolato e poi il corpo sciolto nell'acido, secondo quanto Monticciolo aveva già raccontato settimane fa. Rispetto a quel che si era appreso allora, emergono adesso particolari inquietanti. La decisione di assassinare l'ostaggio non fu presa dopo la cattura di Leoluca Bagarella (giugno 1995) per dare un «segnale forte» a Santino Di Matteo, nel tentativo di indurlo a tornare con Cosa nostra, e pertanto di ridurre l'effetto seguito all'arresto del cognato di Totò Riina. Fu presa invece dopo che Giovanni Brusca, con lo stesso Bagarella e Giovanni Scaduto, anche sulla base delle accuse rivolte loro da Di Matteo e da altri pentiti, venne condannato all'ergastolo per l'uccisione dell'esattore Ignazio Salvo, a sua volta accusato di essere mafioso e anello di congiunzione con politici di primo piano, a cominciare da Giulio Andreotti. Monticciolo ha precisato che Giuseppe fu strangolato da Anzo Brusca (fratello di Giovanni) e da Vincenzo Chiodo, l'introvabile proprietario del bunker con lanciamissili e bazooka scoperto recentemente. L'ultima prigione di Giuseppe sarebbe stata proprio il bunker più attrezzato. Qui avvenne il delitto, qui il seppellimento di quel poco che rimase del corpo del bambino. Antonio Ravidà «Ridotto a pelle e ossa La sua fine decisa dopo la condanna all'ergastolo di un boss» A sinistra la villa bunker dove è stato tenuto prigioniero il piccolo ucciso dai boss. Sopra Giovanni Brusca, che ordinò l'esecuzione

Luoghi citati: Altofonte, Capaci, Monreale, Palermo, San Giuseppe Jato