Il sogno di una Storia normale

Il biografo di Mussolini risponde a Bobbio: studiare Il biografo di Mussolini risponde a Bobbio: studiare Salò non vuol dire sminuire la Resistenza Il sogno di una Storia normale LA polemica di Norberto Bobbio sul «tersitismo culturale» {La Stampa del 16 febbraio) ha rivelato una 1 persistenza ideologica nella cultura italiana che riemerge con l'uso strumentale del passato storico per legittimare il dibattito sul presente politico. Molti gli esempi correnti: dalla diatriba su Piero Gobetti al recupero di don Sturzo... E anche il brillante teorema di Umberto Eco, persino epocale nelle intenzioni, che con il categorico UrFascismo, nella sua conferenza dell'aprile '95 alla Columbia University di New York, è riuscito a ridare la parola alla teoria del «fascismo universale» come categoria permanente della società italiana. Va dato atto a Norberto Bobbio di non essersi mai messo su questa strada. Non meravigli però se è dall'Ur-Fascismo che voglio ripartire per rispondere, anche se con molto ritardo, all'articolo («Revisionismo nella storia d'Italia») che Bobbio ha dedicato al libro-intervista Rosso e Nero, scritto con Pasquale Chessa per Baldini e Castoldi. Perché il nocciolo della questione sta tutto qui: come mai l'Italia non è riuscita a fondare una nuova coscienza nazionale, invece che su verità di comodo e su dogmi ideologici, su quello che gli italiani nel bene e nel male sono stati? Vent'anni fa riferendosi all'enfasi politica delle celebrazioni del 30° anniversario della Resistenza, Giorgio Amendola, nonostante fosse un vecchio stalinista, aveva sentito il bisogno di mettere avanti le mani polemizzando con alcune affermazioni che avevano caratterizzato quelle celebrazioni e che gli apparivano storicamente insostenibili, politicamente più di danno che di giovamento per l'affermarsi dell'egemonia della sinistra in genere e del pei in particolare. Rispondeva Amendola a Piero Melograni nell'Intervista sull'antifascismo pubblicata da Laterza nel 1976: «Si vede il fascismo come un fenomeno che si ripete, come ci fosse una categoria universale del fascismo. Io respingo questa astrazione». I giudizi «riduttivi» di Amendola sulla Resistenza, diversi da quelli che venivano formulati invece dai più dei suoi compagni di partito e da larga parte delle sinistre, aiutano a capire le discussioni che, vent'anni dopo, sono state in buona parte al centro del dibattito politico, degli studi, delle scelte, delle riproposizioni editoriali che hanno animato il rituale delle discussioni intorno al 50° anniversario del 25 aprile. Questa posizione, inconsueta per un dirigente del pei (anche negli Anni 70), ha dietro di sé un percorso di revisione storica che Amendola descrive così: «0 si accetta un'impostazione che noi abbiamo superata, del fascismo come tappa obbligata dell'imperialismo prima della rivoluzione proletaria; oppure si accetta l'altra impostazione, dalla quale risulta il carattere specifico di ogni fascismo, quella che Togliatti chiamava "la via nazionale del fascismo", e in base alla quale il fascismo è visto di volta in volta come espressione di un determinato processo storico». Tertium non datur. Contrariamente a quanto l'onda lunga del sessantottismo portava spesso a sostenere, Amendola rifiutava l'idea di un fascismo sub specie universalis... Ma soprattutto negava la tesi di un «fascismo permanente» in quanto astrazione che non solo non corrisponde alla realtà storica, ma che facendo di ogni erba un fascio, rende impossibile comprendere il senso profondo di tale realtà e con esso quello della collocazione della Resistenza nella nostra storia nazionale. E giustificava le sue critiche con un argomento storiografico che non si può non condividere: «Innanzi tutto per reagire all'atmosfera celebrativa con cui si sono svolte le cerimonie del 30° anniversario della Resistenza, tendenti praticamente a presentare alle nuove generazioni la Resistenza come un fatto di unanimità nazionale, che non è; o di grande maggioranza, che non è. Nel senso che è un fatto di minoranza. Minoranza: certo, non le piccole sparute minoranze clandestine, ma pur sempre ancora minoranza». La mia insistenza sul «revision-' smo» di Amendola («Naturalmente tutte le storie sono soggette a revisioni, altrimenti toglieremmo il pane agli storici futuri») non suoni provocatoria. Rileggere quelle pagine nel contesto polemico di oggi conferma il mio sconcerto di fronte al riproporsi di tematiche critiche che mi sembrano risolte da almeno trent'anni. Mi rendo conto di avere assistito, col trascorrere del tempo, a una vera e propria involuzione del dibattito storiografico che ha spostato indietro i termini della questione di fondo: l'impossibilità di studiare il fascismo al di là di un giudizio ideologico e politico formulato sulla base di convinzioni ideali e morali. I fatti ci dicono che la Resistenza è stata un grande evento della storia italiana che nessun revisionismo potrebbe mai negare. Ma allora, discutere la vicenda resistenziale non può intendersi come il sintomo del desiderio inconfessato di «sbarazzarsi dell'antifascismo». Studiare, in quanto termine post quem, gli effetti dell'8 settembre sull'intera popolazione italiana non significa dimenticare gli effetti catastrofici (per il regime, ma anche per il Paese) dell'entrata in guerra di Mussolini e dell'Italia il 10 giugno del 1940. Documentare da vicino, per la prima volta con un intento puramente storiografico, il funzionamento di Salò non può essere interpretato come un passo verso l'equiparazione fra Resistenza e Repubblica sociale. Ristudiare, sulla base di nuovi documenti, il ruolo di Junio Valerio Borghese o di Giovanni Gentile non può passare per mero giustificazionismo. Analizzare la natura dell'attendismo popolare, interpretare l'atteggiamento morale della cosiddetta «zona grigia» (né rossa né nera) non vuol dire automaticamente negare la funzione storica di chi ha combattuto dalla parte della democrazia. Il fatto è che il dibattito sull'antifascismo non muove oggi da quello sul fascismo, ma dalla riconsiderazione (memoria) dello sviluppo storico dell'Italia. Ridurre tutto alla contrapposizione tra Resistenza e Salò, tra fascismo e antifascismo non corrisponde alla realtà dei fatti così come la ricerca storica va lentamente ma inesorabilmente documentando. «Per sua natura lo storico non può essere che revisionista, dato che il suo lavoro prende le mosse da ciò che è stato acquisito dai suoi predecessori e tende ad approfondire, correggere, chiarire la loro ricostruzione dei fatti» ho scritto nella mia introduzione a Rosso e Nero. Commentando proprio quel passo centrale Bobbio specifica: «Il revisionista in senso buono è colui che, per amore della verità, accerta fatti nuovi per far progredire la ricerca storica; il revisionista in senso cattivo è colui che nega, per spirito di parte, fatti accertati». Adesso io aggiungo e mi chiedo: chi decide e sceglie fra ciò che è buono e ciò che è invece cattivo? Questa distinzione in realtà può essere giustificata solo attraverso un giudizio morale o una valutazione politica. Per la ricerca storica, invece, basata sulla conoscenza senza aggettivi, oggettiva nel metodo, la differenza fra buono e cattivo non può sussistere. Semmai, anche se io rifuggo ogni contrapposizione manichea, se proprio lo si vuole, «buono» è ciò che aggiunge conoscenza dei fatti e delle dinamiche che li hanno determinati, «cattivo» è tutto ciò che impedisce lo svilupparsi oggettivo della ricerca o peggio che nasconde e travisa i fatti sostituendoli con interpretazioni. Scrive ancora Bobbio: «La storia è una scienza - dice De Felice perché si fonda su fatti. Un momento. Ogni storico sa benissimo che la prima distinzione da tener presente è quella tra fatti rilevanti e fatti irrilevanti». Ma è davvero possibile distinguere fra contrapposte categorie solo sulla base dello scopo (morale? politico? religioso? umano?) che si propone lo storico? Per Bobbio il momento morale è legato a una visione democratica di sinistra, Giustizia e Libertà, o meglio Libertà e Giustizia. Non mi sembra questo un modo di procedere scientifico. Anzi fmisce per legittimare una posizione moralistica: considerare cioè rilevante ciò che politicamente è valutato importante, in un momento dato. E' questo un atteggiamento comune a tutti i resistenti, di qualsiasi colore e tendenza. Di recente mi ha colpito un passo della commemorazione del partigiano Mauri, tenuta dal già comandante dell'Organizzazione Franchi, Edgardo Sogno: «E' vero che lo storico deve emancipare la storia dall'ideologia, scindere la verità storica da quella politica... Lo storico, in quest'opera di eterna revisione, è pur sempre costretto a trovare fra le macerie ciò che è memoria storica positiva...». Anche per Sogno, in ultima analisi, deve avere la meglio il giudizio morale e politico, un giudizio positivo, legato all'idea di libertà (in senso anticomunista, perché dice Sogno i comunisti non sono liberali)... Io dico no. Nessuna esigenza politico-morale può sostituirsi al procedere scientifico della ricerca storica. L'obiezione mi è nota: la scelta storica non dispensa dall'interpretazione idcologica-politica-morale, anzi non può separarsene. E dò atto a Bobbio che sia filosoficamente legittima. Ma io credo che la rilevanza dei fatti, proprio perché «i fatti storici non sono come i fatti fisici» e hanno bisogno di essere studiati nel contesto in cui sono accaduti, sia determinata da altri fatti che La storia proseguendo nella ricerca scopre, discute e ridiscute. Ciò che lamento, infatti, è la «politicizzazione» della storia italiana che ha impedito, fino a oggi, di studiare gli eventi del «biennio tragico» '43-'45, come tutt'uno, inseriti in un unico quadro di riferimento. La crisi della nostra cultura storica nasce, tra l'altro, proprio dalla incapacità di stabilire una gerarchia scientifica per quel che riguarda la rilevanza fra i vari problemi e aspetti della realtà. Nella doppia intervista, pubblicata da Panorama e Unità (sarà ripubblicata nella versione originale nei libretti della rivista Reset) in occasione del 50" anniversario della Liberazione, Bobbio e io concludevamo quasi all'unisono con l'auspicio che si creassero le condizioni storiche, morali e culturali perché si potesse finalmente realizzare il sogno di «un'Italia normale... con una sinistra normale e una destra normale». Sommessamente aggiungo anche il sogno di una storia nonnaie! Renzo De Felice «Per me "buono" è tutto ciò che aggiunge conoscenza dei fatti, "cattivo" ciò che la impedisce» «Per me "buono" è tutto ciò che aggiunge conoscenza dei fatti, "cattivo" ciò che la impedisce» Renzo De Felice: «Sono contro la politicizzazione della storia» Norberto Bobbio In alto Mussolini al Foro Olimpico nel 1939

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