Sarajevo l'ultimo giorno dei serbi

Tra incendi, disperazione e trappole esplosive è stata ammainata e portata via la bandiera Tra incendi, disperazione e trappole esplosive è stata ammainata e portata via la bandiera Sarajevo, l'ultimo giorno dei serbi A Grbavica che da stamane è musulmana LI RUGHi DELIA PACE SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Al triste coro «Dio della giustizia aiutaci» i poliziotti serbi erano schierati su due file, il fumo delle case vicine li sovrastava, intorno rimbombavano esplosioni e si spandeva lo scricchiolìo di vetri infranti. Al microfono un vice ministro diceva: grazie fratelli, voi avete salvato la nostra gente dal genocidio. Erano le tre del pomeriggio, ieri, e dinanzi alla caserma di Grbavica la polizia serba abbandonava ufficialmente il territorio. Adesso non so bene come rendere tutte le forzature, la commozione, la tensione, il senso tragico di questo momento, eppure ancora adesso la sensazione è quella di aver per la prima volta assistito ad una cerimonia di sradicabandiera. Non veniva ammainato, il vessillo della «Srpska Republika» piantato sul villino di Grbavica, ma tirato giù con tutta l'asta, religiosamente arrotolato, accompagnato di mano in mano fino ad una «Golf» verde e blu che lo prendeva in consegna per trasferirlo appena cinquecento metri più in là, dove l'abitato muore. Adesso l'ultimo quartiere serbo è abbandonato anche formalmente al suo destino, ai suoi roghi, agli incubi dei giorni che verranno. «Restano duecento serbi quasi tutti anziani, e ottocento fra musulmani è croati», diceva Milorad Katic, sindaco con le valigie in mano. «Posso solo augurarmi che non debbano subire le stesse violenze occorse alla gente degli altri quartieri». Se lo augura tutto il mondo. Poiché se da questa notte a Grbavica dovesse verificarsi anche la centesima parte di quanto si è perpetuato durante il lungo macello balcanico, l'accordo di Dayton smetterebbe di scricchiolare. Crollerebbe con un grande tonfo in pochi mesi. I segnali d'allarme incalzano con l'ossessione del concerto di fiati del film di Kusturica. E' sempre più evidente che il trattato ha interrotto, sì, la guerra ma essendosi limitato a fotografare la situazione produce nuove ondate migratorie. Colonne di rifugiati continuano ad intersecarsi, si ammassano all'interno di «entità» etnicamente purificate ma psicologicamente esacerbate. Ancora altri profughi, i «profughi di pace», partono, scardinano, bruciano, imprecano, piangono, sfondano le condutture, minano le case. «L'avevamo detto a Karl Bildt - continua Katic - ed a tutti gli ambasciatori: qui resterà dall'uno al dieci per cento della popolazione, loro non volevano crederci. Convinti, adesso?». Ieri mattina tra fumo ed esplosioni gli ultimi erano in fila coi loro fagotti, aspettando un convoglio di autobus da Pale («il biglietto è gratis, almeno»). E se fosse possìbile concentrare in una figura tutta l'assurdità del concetto di etnia, una ragaz- za di nome Vesna incarnava questo delirio con evidenza plastica. Anche lei aspettava gli autobus, sottobraccio al fidanzato: aveva capelli nerissimi, incarnato mediorientale, corporatura minuta, occhi di ossidiana. «Mia madre? Eccola lì, è una serba. Mio padre? E' un giordano, non lo vedo da anni. Un musulmano, certo: ma dei musulmani adesso io ho paura». Poche ore più tardi un diligente prospettino dell'Ifor avrebbe chiarito con toni di ragionieristica impotenza le dimensioni della catastrofe. Quattro anni fa in questa parte di Sarajevo i serbi erano 144 mila, nello scorso dicembre si erano ridotti a 70 mila, 20 mila al 22 febbraio, 13 mila al 7 marzo, meno di duemila all'altro ieri. Il sindaco Katic, commosso e furente, dice che la gente di qui non ce l'ha più con Karadzic, non si sente più tradita: «Hanno capito che negli accordi di pace la Srpska Republika ha potuto solo subire». Il capo della polizia si chiama Sreto Pekic, è un omone sbrigativo. Poco fa i bersaglieri italiani gli hanno consegnato tre serbi bloccati mentre stavano preparando una trappola esplosiva. Non gli dispiace arrestare i suoi? «Il lavoro è lavoro... no, mi dispiace abbandonare il luogo in cui sono nato. Forse voi non lo capite, ma questo è un momento tragico,' Una tragedia che minaccia di prolungarsi. Mentre il capo della polizia parlava dal suo «walkie-talkie» partivano scariche e frasi ringhiate. «Sentite? Sono i poliziotti musulmani che s'inseriscono sulle nostre frequenze. Questo dice: se hai coraggio aspettami, che ti faccio un culo così». I tre serbi fermati dai bersaglieri stavano minando una ca¬ sa a due passi dalla piazza del mercato: «Avevano due bombe a mano, una serba ed una americana, del filo di nailon, stavano trafficando vicino a una porta». Le bombe si piazzano dietro i battenti, basta un po' di scotch. Si tolgono le sicure, il filo si collega alla maniglia: per chi apre quella porte sarà morte sicura. Gli ufficiali italiani ormai si sono fatti un'idea chiara di quanto accade: «C'è gente che brucia la propria casa in segno di spregio ma quelli che le minano hanno obiettivi diversi: in questo quartiere il terrore comincia a intrecciarsi al terrorismo». E' un passaggio delicatissimo, un vero punto di svolta. L'altra notte sedici donne di Grbavica hanno dormito nell'ufficio dell'Unhcr per timore di ritorsioni, questa notte le tre stanzette dell'ufficio saranno anche più affollate. Ieri mattina, mentre i bersaglieri correvano intorno a un palazzo da dove una donna si era affacciata chiedendo aiuto (temeva che un vicino avesse minato tutto) dai vetri molati di un portone ho visto affacciarsi il viso di una donna. Ci siamo capiti a gesti. Lei chiedeva: italiano? Ed al sì faceva «Hvala Bogu», grazie a Dio. Poi, sempre a gesti: puoi venire su, puoi chiamare i soldati? In casa siamo cinque, tutte donne: io, mia madre, mia nonna e le mie due bambine. E poi mimava l'universale gesto della paura, chiedeva: quando arriva la polizia internazionale? «Sutra u scest», domattina alle sei. E lei interpreta il terrore di tutta una notte, l'angoscia che l'avrebbe presa col buio, senza più la polizia serba e senza ancora una protezione internazionale. Tocca proprio a noi, stanotte, garantire quelli che sono rimasti a Grbavica. Già da questo momento, mentre la Sarajevo musulmana si prepara a celebrare la riunificazione, centosessanta bersaglieri della «Garibaldi» pattugliano i vialoni bui, si acquattano d'istinto ad ogni esplosione, cercano di bloccare terroristi o vendicatori. Il clima è fra i peggiori. Se gli ultimi militari serbi hanno abbandonato Grbavica, dall'altra parte l'esercito musulmano non si è ancora ritirato del tutto dalle caserme della «Sniper's Allée». I portavoce Ifor ieri erano insolitamente duri: «Anche i bosniaci devono ritirarsi dietro i limiti della zona di esclusione, e invece nella caserma Tito c'è ancora qualche centinaio di soldati. Hanno chiesto un rinvio, gli è stato negato. Abbiamo il potere di costringere questi uomini a rispettare gli accordi». Da oggi, lungo il vecchio corridoio di confine non si dovrebbero vedere più un militare ex jugoslavo in divisa né un'arma. Se così non dovesse essere riesploderebbe tutto. Giuseppe Zaccaria I bersaglieri setacciano le case cercando bombe e mine llllPillllliili^ mmmàm?m m m .::V;: r.':-:x:-:x'::-' :• ' ■ ' ' . ••''•:::::V:::::;':':::':-:- limMsmiimm. («►VQUARTIERI PASSAI! S-< SOTTO IL CONTROLLO CROATO-MUSULMANO PAZARIC IL QUARTIERE D! GRBAVICA E' PASSATO DA OGGI SOTTO IL CONTROLLO MUSULMANO ZONE DOVESI E' RACCOLTALA POPOLAZIONE SERBA DI SARAJEVO In alto, le forze di polizia serba lasciano Grbavica, l'ultimo sobborgo di Sarajevo a passare sotto le forze musulmanecroate A fianco una donna serba piange davanti alla sua casa in fiamme a Grbavica e a sinistra un uomo e suo figlio trasportano una lavatrice passando davanti a un check point italiano dell'Ifor

Persone citate: Delia Pace, Giuseppe Zaccaria, Karadzic, Karl Bildt, Kusturica, Milorad Katic, Pekic, Vesna

Luoghi citati: Dayton, Grbavica, Sarajevo, Zone