La «Cina» è di nuovo vicina
// legno di Cernii // legno di Cernii La «Cina» è di nuovo vicina YtI ROMA I / ENT'ANNI dopo la pri1/ ma esposizione al pub1 blico, ritorna in scena ' \Cina di Mario Ceroli, alla Galleria romana Sprovieri (fino al 5 aprile). La prima volta accadde alla metà degli Anni Sessanta, quelli della rivoluzione culturale cinese, a cui si guardava come a un modello e soggetto ad ammirazione; Bellocchio intitolava il suo film La Cina è vicina e Cina, pur priva di per sé di connotazioni politiche, incarnava l'idea stessa di quel Paese. «Falegname mitomane, piccolo Rimbaud della falegnameria - scriveva di Ceroli Goffredo Parise, in un testo pubblicato nel catalogo della prima esposizione, alla galleria La Tartaruga di Roma -. Ho detto mitomane (mitomania di artista neoumanistico, neorinascimentale si capisce) sai perché? Per le dimensioni delle tue sculture; che ingigantiscono, si fanno sempre più grandi, enormi. Non basteranno i saloni di una esposizione, di un museo, non basteranno i saloni Farnese o i capannoni in acciaio e vetro, da Pentagono, costruiti apposta per le tue folle meccaniche di piatti uomini in serie. Come è giusto. Forse la Cina basterà». Era il 19 novembre del 1966, anno entusiasmante per la vita artistica della capitale. Cento sagome di legno, in dieci file di dieci uomini e dieci donne, riempivano l'intera sala della galleria lasciando minimi varchi al visitatore che poteva osservare solo dal di fuori quella folla ordinata e marciante. Lo spazio è illimitato, iterativo, sequenziale e la ripetizione della figura umana, maschile e femminile, è diversificata solo dalle differenti venature del legno. La grande opera Cina di Mario Ceroli dovette certamente creare una forte sorpresa; era, infatti, uno dei primi lavori che occupavano fisicamente lo spazio, un'opera-ambiente di grande impatto. Fino a quel momento, era più che altro la sperimentazione materica il terreno sul quale misurare le novità delle proposte. Ceroli stesso fu tra i primi artisti a far proprio il «materismo» della scuola romana, eleggendo il legno grezzo a elemento costitutivo della realtà. Col legno iniziò a ritagliare grandi immagini dai contorni nitidi, sculture bidimensionali, piatte, semplificate, una sorta di proiezioni sul piano che conservano, però, la doppia valenza di silhouettes e di ombre proiettate. Profili di figure e di oggetti, numeri, cose di uso quotidiano e capolavori del Rinascimento - con citazioni da Michelangelo, Leonardo e Botticelli - diventano i soggeti delle sue opere fino alla metà degli Anni Sessanta. Ma è con la Cassa Sistina, una grande scultura «praticabile» dal visitatore e, soprattutto, con Cina che Ceroli, creatore e artigiano, homo faber per definizione, trasforma la scultura in teatro. Con la creazione di un insieme ambientale, un environment, si verificò, infatti, una svolta decisiva in quella straordinaria stagione della cultura artistica italiana: i lavori dello scultore, insieme a quelli di Kounellis, Pascali, Schifano, Festa, Angeli, non solo svilupparono e oltrepassarono alcune premesse del neodadaismo e della Pop Art, ma posero quei fondamenti linguistici che contribuirono alla nascita dell'Arte povera e dell'Arte concettuale. L'opera rappresenta ancora il concetto di serialità ma, adesso, caduto ogni sipario ideologico, percepiamo solo il gelo disumano che traspare dall'omologazione forzata. Federica Pirani Ceroli con il suo capolavoro ligneo
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