I passi perduti di Paolini

Roma: Villa Medici festeggia «Jules-le-Grand», genio sornione dell'arte concettuale Roma: Villa Medici festeggia «Jules-le-Grand», genio sornione dell'arte concettuale I passi perduti di Paolini L'opera si esibisce scomparendo il ROMA I VEVANO sinora il loro Gui1 de, i francesi, il divino Guij\\do cantato da Stendhal e i-*Jdai viaggiatori del Grand Tour, quello che noi prosaicamente - carabinieristicamente quasi chiamiamo Guido Reni. Oggi avranno pure il loro Jules, Giulio Paolini, Jules-le-Grand (sì, con anche la sfumatura fidanzale, Nouvelle Vague, truffautiana: «il loro fidanzato di Francia»). La fascinosa - come chiamarla? - passeggiata mnemonica? partitura scenografica? invenzione labirintica? insomma quest'invito al camminar-mentale che Villa Medici dedica al raffinato, godardiano paladino dell'invenzione concettuale, rimarrà certo memorabile negli Annali dell'istituzione francese, incastonata nel verde di Roma. Soprattutto perché, come per una misteriosa, medianica predestinazione, tutte quelle opere storiche che Paolini ha disseminato, apparentemente disperse e divergenti, lungo il proprio percorso di Pollicino-non-Ulisse (che mai accetterebbe di ritornare all'insopportabile Itaca dell'identità) ebbene, non soltanto sembrano nate appositamente per questo progetto, ma sembrano pensate proprio per questi spazi cavernosi, nelle viscere del Bosco Sacro dove Messalina venne a sperdere la dionisiaca esistenza. Le opere si rincorrono come passi perduti, in una circolarità che non ha via d'uscita, salvo quella mitica dell'intelligenza immaginaria. Mimesi: la Venere dei Medici, che im tempo svernava in questa Villa di piacere, calco di un calco di un calco, è divenuta doppia e le due ignude di gesso, ora, si guardano, come sorprese, neutralizzando ogni mistero del fare arte nel loro miope strabismo stuccato. Si coprono per dispetto e sfida: ma siamo noi, spettatori, le vittime insulse, intercettate e derise, entro quel breve tratto di mare immaginario ed irato del loro sguardo, che nullifica ogni sacralità dell'aura. «Lo sguardo fissato in un quadro o in una scultura - scrive l'artista - non si rivolge né all'autore né ad altri, non ammette né uno né molti punti di vista: riflette in sé la domanda sulla propria stessa presenza». E' da sempre che Paolini s'interroga sul che cosa voglia dire ancora fare arte. Che si mostra, scomparendo: le sue sono interrogazioni (i telai, i barattoli di colore, le tele bianche come i fogli notturni di Mallarmé, ammalati dalla paura di scrivere), questioni che si fanno opere, senza bisogno nemmeno della «materia perduta». Puro fascino astratto: come il mallarmiano lago del cigno di Poussin, che si raggela in una curva di tavolozza. 0 quel calembour in gesso dei due lottatori spaccati a metà, le due parti di corpo infisse nelle pareti divergenti, che spaccano anche il tuo vedere e soprattutto il tuo «pensare» iì vedere: non sai più ricombaciare l'uovo dello sguardo. Dove ti conduce quel dito biblico e pantografato di Poussin, che indica gli antichi...! La mostra s'incammina come verso un Gradus ad Parnassum, suggerisce Fagiolo dell'Arco nel suo illuminante saggio di scaltrito cicerone (nell'elegante ca- talogo Allemandi): su, verso quell'accecante cui de sac dove l'ansia del capire t'è sbarrata dall'emozionante, tragica Montagne S.te Victoire, fermentante intrico di scheletrici telai ammonticchiati ed incernierati sopra due cavalietti. I colori, svaporati come vecchi profumi. Lo choc viscerale d'un'opera che vuol venire alla luce: e quella «luce» è la ferita incastonata d'una tela vergine ingabbiata nei telai e spazzolata dallo schiaffo pulviscolare d'un fascio di lampade alogene. E ti par di vedere, nell'angusto cinereo studio di Aix la gran barba disarmata di Cézanne aggirarsi frenetica nel vano tentativo d'afferrare la soffocante geometria della vita, lui che scriveva: «Sarei capace di rimanere dei mesi di fronte a questa montagna per tentare di ri¬ produrne la struttura». E ne muore, sotto la pioggia. Ma eccoci rimbalzati all'opera d'ingresso, quella poeticissima Villa Romana che soltanto nel titolo conserva l'odore del silenzio metafisico dei quadri di De Chirico (ma i titoli di Paolini, come per Satie o Man Ray, sono già pittura: talvolta unico colore del quadro). Una catasta di cornici assiepate ed infardate dall'anilina kitsch di un coiffeur dell'universo, assedia la sgozzata colonna di luce d'un obelisco classico. Incornicia ed insieme strangola la sua fosforescente energia di calco neoclassico, come quando nell'Oro del Reno i giganti Fasolt e Fafner costruiscono una cortina di tesori intorno a Freia per ottenerne un tesoro equivalente e nel buio ancora lampeggia il memento terri¬ bile dell'occhio vigile. La cornice che sostituisce ogni illusione di sostanza vera, che conserva l'enigma ma anche l'oltraggia: tutta la speculazione di Paolini ruota intorno a questa verità. La verità è presente nella sua assenza, nel suo buco: e nel rincorrersi di riquadri che ingoiano riquadri è proprio l'io, l'odioso Io psicologico e narrativo dell'Autore che viene a svanire. Quel gioco struggente di cornici nella cornice della Veduta di Villa Medici di Velàzquez: e il fulcro della visione non è che un rettangolo vuoto, che lascia respirare l'enigma vergine della parete. Mentre a lato si profila, come un arbusto rampicante, il retro del telaio del fatidico quadro eh'è al centro simbolico delle Meninas. L'immagine «rimandata» ed il latitare dell'Autore allo specchio: che si rispecchia nell'autoritratto raggelato di Poussin. Bit autrefois Gilles, si gioca sull'altrieri, sull'«in altri tempi» del titolo: ed intanto con perizia mondrianesca ecco che il Pierrot di Watteau si vede «ripartire» in sezioni e riquadri, ed il bianco cancella il volto della sua melanconia incipriata. Citerà frantumata. Come meravigliosamente si frantuma a terra, in un rumore di acque infrante il magico Surtout Valadier, scenografico suicidio del leggendario orafo nel Tevere, che è una cascata di costumi teatrali giù nel baratro d'una feritoia che s'apre nella cordonata della villa. Paolini ha preso le misure del grandioso Surtout ora al Louvre, ha sagomato il cristallo secondo le anse del Tevere ed ecco il frangersi crudele di vetri, resecando le molieresche scarpine di lacca. In alto, su un oblò, al limite dello sguardo, Le souffleur di Chardin soffia le sue bolle di sapone che diventano cosmogonia planetaria. Mentre su una stampina cinquecentesca della villa ecco che evade un bambinaccio crudele di Balthus: e dal suo malumore esplodono i mille fogli di un possibile racconto pittorico. Paolini sottrae, rarefa, perché ausculta il blanchottiano canto delle sirene dei Possibili: lo spazio come vertigine delle lontananze. La Zattera della Medusa di Géricault bussa (con la forza tellurica della tela esplosa in brandelli) alle porte di una elegante planimetria di stanza parigina: la collera giallastra dell'acqua, e dei gesti declamati della disperazione cannibale, quasi fa schiattare l'interno educato, dove uno zelante rettangolino di collage va a disporsi al posto borghese del quadro appeso. Dicono che abbiamo prevenzioni contro l'arte concettuale: ma quando dietro i concetti «poveri» c'è un genio dell'invenzione come Paolini ci ritroviamo all'empireo. «Non si preoccupi - sorride lui sornione -, anch'io sono rétro». Marco Vallora Giochi di comici per inquadrare un'illusione: la verità è assenza Una passeggiata scenografica nel Bosco Sacro di Messalina Giulio Paolini, che espone a Villa Medici. A lato «Meridiana»

Luoghi citati: Francia, Parnassum, Roma