Era un boomerang per Silvio ora è mina per Romano di Augusto Minzolini

per Romano per Romano RETROSCENA IL RIBALTONE DELL'EX COLOMBA ROMA A settimane Vittorio Dotti, la colomba di Forza Italia che ora Silvio Berlusconi chiama serpente, quando parlava con gli mtimi si lasciava andare ad una previsione: vincerà il centro-sinistra. Senza contare che qualche giorno fa ad un deputato amico come Giorgio Iannone, l'ex capogruppo di Forza Italia aveva confidato di aver ricevuto da Lamberto Dini l'offerta di entrare in Usta. Insomma l'ipotesi di cambiare campo, di passare armi e bagagli con il presidente del Consiglio nelle file dell'Ulivo aveva trovato un piccolo posticino nella mente dell'ex seguace del Cavaliere. Dotti, in altre parole, era nella condizione, a seconda dei punti di vista, di chi è tentato dal maligno o di chi da lontano scorge la salvezza. Certo l'uomo quella sensazione l'aveva relegata, respinta, messa da parte, ma alla fine quell'idea era rimasta lì, riposta in un androne nascosto della sua volontà, con la tipica riserva mentale del «non si sa mai». Così ieri quando Dini è tornato alla carica, l'ex capogruppo di Forza Italia, scomunicato da Berlusconi per colpa della fidanzata Stafania Ariosto, era già pronto ad accettare quella proposta, come l'ateo che è disposto a convertirsi in punto di morte, che è pronto ad abbracciare qualunque religione in uno stato di necessità. Eh sì, perché Dotti ha ceduto alle profferte del presidente del Consiglio perché non aveva alternativa, perché è un uomo disperato: solo così si spiega la scelta di chi il giorno prima dice «continuerò a far l'avvocato della Fininvest», «auspico una vittoria del centro-destra», «avanzerò la mia candidatura a sindaco di Milano», e il giorno dopo accetta di cambiare vessillo, di seguire Dini sotto il simbolo dell'Ulivo. E ieri, proprio come un uomo disperato, l'interessato ha spiegato la sua scelta ai suoi collaboratori: «Ho il terrore - si è sfogato - di rimanere fuori dalla politica. Tanto quelli lì (Berlusconi e i suoi, ndr) mi massacrerebbero lo stesso. Per cui se devo prendere palate di merda in ogni caso, tanto vale prenderle stando in politica». Fin qui la disperazione dei con- vertito, del nuovo fedele del presidente del Consiglio. Ma anche il nuovo Maestro di Dotti, quello che gli esponenti del centro-destra definiscono il Maligno, cioè Dini, ha tentato quest'operazione azzardata perché aveva bisogno di un rilancio davanti agli occhi dell'elettorato moderato. Sì, anche il presidente del Consiglio si è mosso in uno stato di necessità. Altrimenti non si capirebbe perché Dini ha avanzato quell'offerta a Dotti sapendo che Romano Prodi il giorno prima gli aveva detto che era contrario e che tutti i leader dell'Ulivo - da Veltroni a D'Alema, a Bianco nutrivano perplessità. Anche il premier, malgrado ripeta tutti i giorni di essere fiducioso e sicuro della vittoria, ha i suoi guai. I sondaggi per il partito del capo del governo finora non sono lusinghieri. E le decisioni assunte sulle liste dei candidati hanno lasciato ferite e strascichi. Ancora pesa l'immagine di qualche giorno fa, di due ministri come Treu e Fantozzi che attendono di sapere a Botteghe Oscure in quale collegio saranno candidati. Per non parlare del gran rifiuto di Mario Segni, che ha scelto di tornare a casa perché Rinnovamento Italiano rischia di diventare <da scialuppa di salvataggio di tanti riciclati». Eppoi c'è - è di ieri - il grido di allarme di uno degli esponenti più in vista del movimento, Diego Masi, che non riesce a trovare le firme necessarie per presentare la candidatura nel collegio che gli è stato assegnato. Senza contare che Dini non si è assicurato tutti i candidati che voleva e, contemporaneamente, deve far fronte alla delusione di molti dei seguaci della prima ora: «Non si sa niente - si lamentava ieri l'ex sottosegretario Mongiello - perché decide tutto lui». In questa situazione Dini deve aver pensato che candidare Dotti, strappare un moderato a Berlusconi, poteva essere la grande occasione per ridare smalto al movimento. Per questo il presidente del Consiglio non ha dato peso alle riserve di Prodi e di D'Alema. Ma, soprattutto, Dini ha sottovalutato la campagna-contro che il centro-destra avrebbe potuto scatenare sul «caso Dotti», quella che ha inaugurato ieri Emilio Fede sul Tg4: «Si dice che i traditori non hanno patria, non è vero, qualche volta la trovano». In altre parole il «premier» non ha tenuto nel dovuto conto una serie di rischi sul piano dell'immagine insiti nell'operazione Dotti: una cosa è stigmatizzare la decisione di Berlusconi di escludere dalle Uste un suo esponente di primo piano come hanno fatto Prodi e D'Alema; un'altra è chiedere a Dotti di cam- biare bandiera e di trasformarsi in 24 ore da avversario in alleato. Son cose che capitano solo al calciomercato. Così il «caso Dotti» è diventato una mina vagante anche per il centrosinistra. Un altro esempio del dilettantismo che caratterizza la politica di questi tempi. Vale per Berlusconi, ma vale anche per Dini. Del resto un amico di un certa esperienza come Giulio Andreotti aveva sconsigliato all'attuale presidente del Consiglio di scendere in campo. «Io - ha raccontato qualche giorno fa il divo Giulio ad un amico - ho spiegato a Lamberto che stava facendo un grave errore, che rimanendo fuori sarebbe stato la prima riserva della Repubblica. Credo che Il legale Fininvest: «Tanto Berlusconi mi avrebbe massacrato lo stesso» Dini avrebbe preferito seguire questa strada, ma la consorte Donatella ha insistito tanto e alla fine lo ha convinto... Le donne spesso portano alla rovina...». Una affermazione che accomuna, sia pure involontariamente, il Maestro Dini al nuovo discepolo Dotti. Augusto Minzolini

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