Una strada per Maastricht di Franco Lucentini

F & L: consigli ai signori del Vertice F & L: consigli ai signori del Vertice Una strada per Maastricht BURANTE la guerra fredda sorse nella Berlino detta allora «occidentale» una sorta di vetrina permanente dedicata all'architettura contemporanea, mentre di là, nel settore «orientale», si moltiplicavano i filari di quei tetri, ferrigni parallelepipedi abitativi cari al comunismo, che non rinunciò mai, ovunque potesse, a impiantare i suoi simboli di penuria, dolente rigore e ingobbita disciplina. L'idea, altrettanto simbolica, dei reggitori della Berlino libera aveva invece una sua grandiosità rinascimentale: chiamare a raccolta i massimi nomi dell'epoca (erano ancora operanti Mies van der Rohe, Aalto, Le Corbusier e altri Maestri) e affidargli la costruzione di un intero quartiere. A ciascuno di quei sommi sarebbe stato messo a disposizione un lotto su cui impegnare il proprio estro progettuale, talché in conclusione la città avrebbe potuto mostrare al mondo un «album» per così dire antologico davvero straordinario, nonché una prova quanto mai tangibile della superiorità creativa dell'Occidente. Il piano fu realizzato, il quartiere (di cui non ricordiamo il nome) esiste, e quando lo visitammo anni fa prima della caduta del Muro era diventato un'attrazione turistica per intenditori. Non proprio la folla ma un discreto traffico di architetti d'ogni razza ed età, riconoscibili precipuamente dalle famigliole al seguito, mogli stoicamente partecipi e figli adolescenti dall'aria un rien annoiata. Interessante? Sì, certo, da vedere senz'altro; ma più, parve a noi profani, nella direzione della curiosità, della trovata. Si trattava di edilizia residenziale e passeggiando tra palazzine non molto alte, tutte «vissute» e tutte immerse nel rigoglio di alberi e cespugli, c'era il gusto enigmistico di tentare di riconoscere gli autori da un cornicione, un tetto, un'arcata. E ci si chiedeva quanto cari potessero essere gli affitti di queste case «firmate», che avevano nel frattempo perduto ogni connotazione propagandistica e se ne stavano lì riunite in bella mostra un po' (ci perdoni Eupalinos la bestemmia) alla maniera di Suisse Miniature. Quel pomeriggio berlinese ci è tornato in mente leggendo delle fervide ripuliture che in vista dell'ambito «vertice di Maastricht» la nostra città va apprestando con l'accompagnamento della secolare lamentazione: Torino è bellissima ma nessuno la conosce (cui sempre più angosciosamente ci sembra da preferire la formula: Torino è bellissima e per fortuna nessuno la conosce). Facciate, vie, piazze verranno dunque tirate a lucido, palazzi e chiese sveleranno tutta la loro elegante imponenza, i visitatori saranno guidati ad ammirare i Maestri del passato, Juvarra e Castellamonte, Guarini, Vittone, Benedetto Alfieri, com'è giusto. Ma a nessuno passerà per la testa di condurli fino a quella che è in verità la più rivelatrice e la più sensazionale showroom architettonica di Torino, e cioè fino a via Cibrario. Non sappiamo chi fossero gli urbanisti e funzionari comunali che la tracciarono, ma doveva trattarsi di torinesi cresciuti nella consapevolezza del fatto che per andare dal punto A al punto B non c'è di meglio di una linea retta, e poche storie. A chi la imbocca dal suo inizio in piazza Statuto la via non promette quindi la minima sorpresa, se ne possono percorrere cinquanta come cinquecento metri senza cambiare orizzonte, ossia, nei giorni di vento, un segmentino di montagne, e altrimenti il fuligginoso fondale entro cui si perdono ormai quasi tutte le città. Una via invisibile, alla prima occhiata. Né larga né stretta, il passaggio di un tram nei due sensi le vieta qualsiasi aspirazione aristocratica e i molti negozi e negozietti sui due lati ne denunciano la natura commerciale, solidamente, operosamente borghese. Ci si può passare (e noi ci siamo passati) le mille volte senza vedere altro. Ma capita che, ricordando magari che ci abitò Guido Gozzano, uno si trovi a infilarla in una domenica oziosa e procedendo verso il nulla in quel desolato corridoio di servizio alzi uno sguardo mogio su una facciata di cinque o sei piani e si dica, be', però, niente male dopotutto queste lievi decorazioni liberty bianco su grigio, e noti come siano in singolare ma piacevole contrasto con la facciata adiacente, una specie di Hampton Court in verticale, che a sua volta fa amabilmente a pugni con la pseudo-fiorentinità della facciata successiva, la quale... Passo dopo eccitato passo la verità si fa luce: questa via semidecentrata, seminascosta, è stata prescelta dal segreto genio torinese per esibirsi in una delle sue più deliranti e beninteso involontarie follie, dove il neo-gotico fronteggia il proto-floreale, il mattone para-littorio affianca il mosaico post-bellico, e senza la minima intenzione di far colpo, di lasciare il segno, tantomeno di umiliare i clericali o i socialisti di cent'anni fa, ma così, per caso, e si direbbe per gioco se Torino non fosse Torino. Altro che l'«album» berlinese! Alcuni dei palazzi sono stati di recente spazzolati e strigliati a dovere e s'intuisce che se tutte le facciate venissero rimesse a nuovo nessun'altra via in Europa, e anzi a pensarci nel mondo, potrebbe competere con via Cibrario. Sfidiamo i competenti a segnalarci dove mai esista una varietà di stili, una profusione di materiali, una parata di stravaganze paragonabili a quelle raccolte qui, lungo i due banalissimi lati di una banalissima retta dal punto A al punto B. Venghino allora i dignitari del prossimo summit, venghino con le loro scorte e famigliole ad ammirare via Cibrario, che è bellissima ma nessuno (per fortuna?) conosce. Carlo Frutterò Franco Lucentini

Persone citate: Aalto, Benedetto Alfieri, Carlo Frutterò, Guarini, Guido Gozzano, Juvarra, Le Corbusier, Rohe, Vittone

Luoghi citati: Berlino, Castellamonte, Torino