Si confessano Pontiggia Vassalli Zanzotto Bevilacqua Galimberti di Marco Neirotti
/ rospi di Dickens e il pappagallo di Flaubert Riti d'autore Si confessano Pontiggia, Vassalli Zanzotto, Bevilacqua, Galimberti MAI di venerdì 17. Mai dopo una lite o dopo una notte di sesso. Biro blu o penna rossa, matita nera o pennarel lo verde. L'ispirazione è bella, ma più potenti sembrano superstizioni, scaramanzie, portafortuna e rituali. «Io sono un superstizioso mancato - dice Giuseppe Pontiggia - e cerco di sottrarmi alla paura e al ricatto delle superstizioni: le vedo come forma di schiavitù, cerco di non stabilire mai connessioni, analogie tra un'esperienza e l'altra, così da non diventare prigioniero di quelle associazioni». Nessun portafortuna, nessun oggetto particolare, però una piccola difesa sì: «Evito il numero diciassette. E' legato a eventi negativi della mia vita. Non comincio a scrivere alle 17, né il giorno 17. Mai una camera d'albergo numero 17». E come fa a numerare? «Scrivo 16 bis». In fin dei conti, Pontiggia ammette che la sua unica superstizione è il diffidare della superstizione. Invece, Sebastiano Vassalli dichiara papale papale: «Manie e rituali li hanno tutti, magari senza rendersene conto. Quanto a me, sono su- perstizioso e non ho difficoltà a chiamare le cose con il loro nome». E ci racconta queste superstizioni? «Raccontarle significa ritrovarsi nudi davanti al destino, quindi non se ne parla». Almeno una può dircela? «Una sì, perché sconfina nella saggezza. Io fotocopio il mio lavoro in modo ossessivo, creo pacchetti di copie distribuite in vari luoghi, così da difendermi da ladri o incendi. E' maniacale, ma non vado a una festa senza portare con me una copia del lavoro che sto facendo». In realtà Vassalli non è ossessionato da rituali quanto da premure di salvezza per ciò che crea. All'opposto stanno casualità e lunghe attese del poeta Andrea Zanzotto: «Rituali o cose simili? Non mi passa neanche per la testa. Scrivere è, come dire? stillicidio, non è esatto, è far scivolare una goccia dopo l'altra. Può darsi che, senza saperlo, io abbia meccanismi inconsapevoli. Ma per me è un fatto naturale, lo faccio quasi a caso, scrivo con quel che ho per le mani su pezzettini di carta che mi riservo di copiare poi e che magari rimangono lì per anni. Scrivere non è altro che un respiro più intenso di quelli normali». Respiri che costano una preparazione ad Alberto Bevilacqua, il quale ha un approccio tutto suo con la pagina bianca: «Introito ad altare dei. Cioè mi appresto a presentarmi all'altare. Un senso che ho fin da ragazzo. Metto insieme le matite, i matitoni, le biro rosse, blu e verde, in file ordinate. La rossa per gli appunti, la blu per abbozzare brani, la verde per la stesura del testo. Rituale che mi crea difficoltà da quando le industrie mettono dentro sempre meno inchiostro, trovarsi con il pennarello scarico è un dramma». Un piccolo esercito di strumenti che colpì Sciascia: «Mi consigliò di scriverci sopra un racconto». Ma, dopo, biro e pennarelli rientrano in vecchie scatole di sigari dalle quali usciranno domani, per una nuova salita all'altare. Immagine, questa dell'introito ad altare dei, che è la vera spiegazione del rituale secondo il filosofo e psicologo Umberto Galimberti: «L'autore è un portavoce. Già Pindaro parlava di un dio che detta. Oggi quel dio lo chiamiamo inconscio. Gli autori sono portavoce di una parola che li trascende. Ma dei e demoni vanno controllati attraverso i riti. L'autore deve contenere il dio e ricorre ai rituali». E lei, professore, che fa con dei e demoni? «Ho un solo rito, anzi due: scrivo soltanto nel mio studio, salvaguardato da ogni interferenza, e mi predispongo ad avere davanti una dozzina di ore, visto che le prime sono di rodaggio. I miei riti sono spazio e tempo». Marco Neirotti / rospi di Dickens e il pappagallo di Flaubert John Steinbeck a caccia del taccuino giusto. La firma negata di Naipaul Sopra: Gustave Flaubert. Qui accanto: Giuseppe Pontiggia A destra: Andrea Zanzotto
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