Quella parola tabù taciuta per 50 anni
Quella parola tabù taciuta per 50 anni Quella parola tabù taciuta per 50 anni RETROSCENA L'IRA DELLA C11W PROIBITA INDIPENDENZA: fino a cinque anni fa chi, a Taiwan, sollevava il sipario di ferro di questa parola proibita, teoricamente, rischiava la condanna a morte. Brandendo le «disposizioni temporanee in vigore durante il periodo della ribellione comunista» (elegante labirinto semantico dove si rinchiudeva il Minotauro dei quarant'anni di vittoria comunista), gli uomini del Kuo-mintang, sconfitti da quella rivoluzione, tenevano lontano i fantasmi del passato e del futuro. Le condanne capitali, con confuciana moderazione, restavano nell'arsenale del possibile: per chi chiedeva di separare il destino dell'isola da quello tumultuoso e incerto della grande sorella separata, bastava la normale galera o l'esilio. Oggi che a Taiwan non ci sono più prigionieri d'opinione, quegli eretici fi trovi in un luccicante palazzo del centro di Taipei, dove ha sede il partito democratico progressista; oppure alla guida di grandi città come la capitale o Kaohsiung; o a presidiare il Parlamento con un gruppo numeroso ed agguerrito. I veri bersagli dei missili di Pechino sono questi testardi nazionalisti che per decenni hanno accusato i cinesi, anche quelli arrivati nel '49 alla ricerca di un ultimo fortino da opporre ai comunisti, di essere «colonialisti». Sono loro che, come spiegava Mao, con la scintilla (dell'indipendenza) hanno dato fuoco alla prateria. Fino a quando la loro voce è stata proibita o soffocata, le due parti dello Stretto si sono fraternamente scambiate insulti e cannonate, ma recitando un copione di cui rispettavano la parte e conoscevano il finale. Era un odio speculare e per questo innocuo: entrambi consideravano l'altro una provincia. In fondo, i fratelM-nemici si assomigliavano più di quanto fossero disposti ad ammettere. Kuomintang e partito comunista, Mao e Chang Kai-shek erano stati complici nei febbrili Anni Venti, avevano frequentato le stesse scuole, respirato lo stesso leninismo dell'epoca di ferro delle rivoluzioni. E infatti i loro regimi, uno minuscolo e l'altro gigantesco, si assomigliavano: dispotici e confuciani, con lo Stato assurto ad assoluto metafisico. Al contrario di quanto è accaduto a Pechino, a Taipei i vecchi satrapi che stavano al riparo, come freddolosi, delle antiche verità, i «continentali» come li chiamano i nazionalisti, hanno dovuto allen¬ tare la morsa del potere. Colpa proprio dell'eccessivo successo economico. Come continuare a raccontare le vecchie favole della rivincita e della riunificazione alle nuove generazioni nate nell'isola, che hanno studiato in America e parlano l'inglese meglio del mandarino, impegnate a inseguire la ricchezza in questa zona industriale di 350 chilometri di lunghezza, popolata da 20 milioni di operai che la sera annegano i dubbi cantando tristi canzoni in orribili falansteri del karaoke? A Taipei ci sono ancora diecimila geomanti (su due milioni di abitanti) impegnati ad indicare a tutti il soffio cosmico del pensiero taoista. Ma il guaio di Pechino è che ormai i McDonald's sono centinaia e le case da tè non più di venti. E' questo il mondo nuovo che vuole uscire dal guscio, dal cerchio magico della riunificazione; e che ricorda come in fondo l'isola fino al '45 è stata occupata dai giapponesi e che i legami con il continente sono sempre stati flebili. Nel 1990, nei sondaggi, dove la parola indipendenza era comun¬ que nascosta dietro tortuose metafore, quelli che si allineavano dietro il big bang del rifiuto della riunificazione non erano più del 15 per cento. Ora sono ormai vicini al 50 per cento. E hanno trovato il loro Gorbaciov. Lee Teng-Hui è l'uomo che aggirando l'ostinatezza senile del Kuomintang ha cominciato a corrodere il vecchio tabù parlando di «Repubblica di Cina Taiwan», inventando le tre regole per l'unificazione (una delle quali era l'affermazione della democrazia a Pechino, un modo per rimandare il tutto alle calende cinesi). Soprattutto ha iniziato la lunga marcia per riavere quel seggio alle Nazioni Unite da cui fu cacciato nel '61, ma questa volta con una nuova identità che segnerebbe lo strappo definitivo dal continente. E' lui la bestia nera dei vecchi (a Taipei e a Pechino) che lo accusano di tradimento e di essere un attore dell'operetta locale che vuole recitare all'Opera di Pechino. Ma sulle due rive dello Stretto si può proibire in eterno la storia? Domenico Quirìco Navi americane pronte all'azione Sopra, jet cinesi sorvolano lo Stretto e una immagine della manifestazione di Taipei
Persone citate: Chang Kai-shek, Domenico Quirìco Navi, Gorbaciov, Mao, Teng
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