IA MOSTRA I CARRACCI e il loro secolo
IA MOSTRA IA MOSTRA ICARRACCI e il loro secolo A sinistra la «Dalila» di Elisabetta Sirani e qui a fianco «Il ratto di Ganimede» di Francesco Albani IL problema dei Carracci, in fondo, è sempre quello. Di ricordarsi, tra i tre, chi era fratello e chi cugino. Con la A i due fratelli: Annibale, forse il più celebrato e spettacolare, e poi Agostino, mediocre pittore, ma efficace come disegnatore e incisore, ed anche come organizzatore e lettore di trattati. Il cugino Ludovico, il più introverso anche nei suoi colori penitenziali e torbidi, è oggi ritenuto probabilmente il più intenso e in vischi ante. Lavorano spesso insieme, come affrescatoli di palazzi illustri, da quello Fava di Bologna dove raccontano l'Eneide e le storie degli Argonauti, a quelli romani: dopo l'incontro decisivo con Raffaello e Michelangelo. Poi ognuno prende per la propria strada, chi alla corte del Cardinale Odoardo Farnese, o nel Palazzo Doria Pamphilj, come Annibale, chi per Parma, come Agostino, cui il Duca chiede di abbellire il Palazzo del Giardino. Ma insieme, soprattutto, fondano a Bologna l'imprescindibile scuola di pittura a cui si abbeverano giovani artisti che diverranno celebri, come Guido Reni o Giovanni Lanfranco, Guercino o 1' Albani. Siamo nel 1590: l'Accademia che all'inizio si chiama dei Desiderosi prende presto il nome, così leggendario nella storia dell'arte italiana, degli Incannninati. E' la reazione violenta alla tradizione ormai asfittica e esaurita del manierismo, che a Bologna soprattutto si perpetua nel magistero di ritrattisti aulici, come il Passerotti o a Roma con gli Zuccari. L'Accademia degli tocamminati vuole riaprire la stanza dell'arte cortigiana, dall'aria ormai viziata, al vento vivo della natura, della vita non isterilita nei canoni manieristici e controriformati dei Grandi Maestri. Pur senza sposare l'ardimento realistico e violento di quello scandalo in persona eh'è sceso nella Roma assassina dalla tenera Lombardia, a mostrare Madonne plebee e viandanti dai piedi usurati, che si chiama Caravaggio e che in un intelligente romanzo di qualche anno fa Manlio Cancogni fece immaginariamente incontrare con l'angelicato e disarmato «cherubino» Guido Reni. Non erano artisti particolarmente originali, i Carracci, che filtravano la loro sapienza scenografica attraverso i magisteri incrociati di Veronese e Correggio, di Andrea del Sarto e Tintoretto. Ma non v'è dubbio che, con la loro multiforme attività, con nature morte e ritratti e autoritratti, con le macchinose pale d'altare e gli affreschi illusionistici, sono gli artisti-cerniera che traghettano l'arte eclettica e imbustata del Cinquecento verso le levità scenografiche e ariose del Barocco. Instaurando queir «ideale classico» del paesaggio naturale italiano, che tanta influenza avrebbe avuto su Domenichino e l'Albani, su Poussin e Claude Lorraine. L'interesse di questa rassegna sui «Carracci e dintorni», che va ben al di là di un'occasione fieristica, nella volontà dell'organizzatore Franco Brancaccio e di alcuni esperti come Alberto Cottino e Emiho Negri, è proprio quella di affiancare ad alcune opere dei Carracci, da un «Ritratto di Giovinetto» di Annibale ad un «Crocefisso» di Ludovico, alcune prove dei grandi discepoli, che si chiamino Guido Reni o Domenichino, Guercino o Lanfranco. Ma ci sono anche minori interessanti, come il Tiarini o Cittadini, Desubleo o Cavedoni. Ed anche il misterioso Schedoni dalle palpebre vuote, oppure Cagnacci, U cantore di Cleopatre languide e perfide. Marco Vallerà
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