CARCERE il labirinto della piena

«Sono oscuramente attratto dai penitenziari come dai rettili e dalle grotte» Il mondo dietro le sbarre: un volume fotografico racconta un pezzo di storia italiana con cinquecento intense fotografìe CARCERE 77 labirinto della pena •m t] ON vorrei recensire qui da \\ inesperto un cospicuo sfor1 zo editoriale del ministero 1 di Grazia e Giustizia - ImÌlJJ magini dal Carcere - che oltre alla presentazione di Giovanni Conso raduna un buon nucleo di contributi anche umanamente interessanti di esperti (Luigi Daga, tra gli altri, sui vari sistemi penitenziari): mi sento meno a disagio adoperandone le immagini e i temi per qualche riflessione di attualità. I curatori, Di Lazzaro e Pavarini, hanno accolto nel volume cinquecento fotografie dell'archivio storico delle prigioni italiane (su cinquemila pezzi esistenti), tutte di questo secolo, spartite in architettura (col bellissimo titolo: Gli spazi della pena; in verità, poi, la pena appartiene a tutti gli spazi possibili), lavoro, religione, bracci e attività femminili, minori, pazzi, epoca coloniale. Materia per il fantastique social di Pierre Mac Orlan ce ne sarebbe in quantità strabocchevole, ma solo se nelle diverse epoche il fotografo non fosse stato «ministeriale» e autorizzato, se fosse stato un curioso con l'obiettivo, con occhio e obiettivo a fare da Gods' spies, palombari di abissi tra i relitti. Le immagini, ovviamente, sono invece tutte ufficiali, con detenuti sempre a posto, puliti, dediti ad attività artigianali appaganti, sempre ben disposti, nei manicomi criminali, a farsi una ricreazione di elettrochoc, e le donne contente di accudire a tanti bei lavorini, di godere della vicinanza dei loro bambini, di essere dirette dalle suore con umanità e saggezza. Gli «spazi della pena» sfumano nell'azzurro. I minori. Là ci sarebbe voluta la macchina da presa di Gabriel Figueroa e il regista avrebbe dovuto chiamarsi Bunuel, quello che fece per il governo messicano e il suo sistema rieducativo il capolavoro degli Olvidados. Per spremere dalle immagini più rigore poetico, più vita... Questa sezione mi solleva qualche ricordo: nel 1948, un quotidiano milanese di modesta tiratura mi inviò, con quarantamila lire di viatico, a fare un reportage a puntate sugli istituti di rieducazione in tutta Italia, dal Nord al Sud. Avevo permessi per tutti i luoghi dove ve ne fosse uno, ma non mi sarebbero bastati i soldi, e il giornale era tirchio; tuttavia ne visitai un buon numero, non ricordo più quanti... Vidi il «Ferrante Aporti» di Torino, il «Beccaria» di Milano, il «Gabelli» di Roma, il «Filangieri» di Napoli, fui a Catanzaro, a Pallanza, a Nisida, a Bosco Marengo, a Firenze... Il personaggio più curioso lo trovai nel direttore di Catanzaro. Non gli parve vero di avere lì un inviato pivello che sapesse un po' di greco e di latino; la sua passione erano i lirici della Magna Grecia. Mentre mi mostrava le celle coi cranietti rasati di giovanissimi assassini dall'aria contrita, mi declamava versi di poeti, esaltando l'aria e il sito, che in verità meritava- no l'elogio dell'umanista. Era così lirico forse a causa della sua obesità. Muovendosi a fatica volava col pensiero pindarico al di sopra delle mura che rinchiudevano anche lui. Parlando di sé si paragonò a Cerbero, così tirò fuori anche Dante. Di carceri per adulti ne vidi qualcuna, nel fiume degli anni, tra cui Spoleto, Rebibbia, qualche prigione militare, Regina Coeli: ne sono oscuramente attratto, come dai rettili e dalle grotte... Carcere non è che apparentemente l'eccezione alla regola: il crimine sfogato o l'innocenza punita sono infatti la società tutta quanta, dove ciascuno punisce l'altro della colpa di esserci (anche l'amare è un modo di punire) e dove chiunque pensi è almeno una volta al giorno attraversato dalla domanda: «perché mi hanno messo qui? che cosa ho fatto?» e la voglia di evasione è la stessa, terribilmente ossessiva, del detenuto. Forse, anche, più intensa. Via via i vecchi modelli carcerari scompaiono e addirittura il Giubileo 2000 ha il progetto di chiudere Regina Coeli. Chiudere o abbattere? La chiusura è una misura intelligente, essendo una brutta prigione, ma l'abbattimento sarebbe turpe, perché il panoptico è architettura geniale, antelitteram kafkiana, e le sue mura possono ospitare dell'altro, che non immagino. Quel che sarebbe da rimpiangere è l'umanità di contorno, i parenti in attesa di colloquio che al mattino di buonora riempiono i bar con le loro facce tese, le mogli e le madri che si raccontano i casi nell'ultima parlata romana superstite. A Rebibbia, carcere modello, dintorni asettici, nulla di popolare, lo stanzone d'attesa è invece triste, senza colore. L'evoluzione del sistema penitenziario, con la costruzione di tanti nuovi «spazi della pena» ha un significato che non è soltanto di «più umanità», «rieducazione invece che afflizione retributiva»: vien meno la distanza, la separazione, sempre stata fortissima, marcatissima, tra la città e la sua prigione, perché l'abitante della città somiglia sempre più (lavoro, famiglia, Università, ospedali, discoteche, teatri, stadi) a un detenuto di Carcere Modello al quale vengono dati ogni tanto dei permessi (fine setti¬ La fuche mana, ferie, settimane bianche) con l'obbligo di rientro in giorni fissati, da cui non si sgarra. Perfino la «passeggiata» è specchio di città in carcere, e di carcere all'interno della città. Guardate la gente nelle Isole Pedonali, cintate di fioriere come guardie, il loro monotono e triste entra-esci dai Centri Commerciali carichi di acquisti inutili eppure obbligati, la gente sorvegliata dalle telecamere nelle librerie, costretta a passare per il Metal-Detector all'entrare in una banca, costretta a timbrare il biglietto ferroviario, a bisbigliare ogni momento quell'ignobile secrezione della tua identità personale che è il Codice Fiscale, invenzione da Lager: credete ci sia molta differenza dalle Vallette o da Rebibbia? Il cortile di Newgate, dove i prigionieri in pigiama a righe girano in tondo per un'ora, nell'incisione famosa di Dorè, me lo vedo ricomparire ogni volta che percorro qualche Isola Pedonale o rue piétonne, pupilla di sindaci preoccupati di avere, all'interno dell'immensa prigione urbana da loro amministrata, un funghetto aromatico, una radura edenica. Siamo davvero usciti dal cortile di Newgate? Lo abbiamo smesso del tutto, o soltanto portato al lavaggio chimico, quel pigiama cifrato? Il modello edenico ispirò nel secolo XIX la provvida inclusione nel nascente inferno urbano dei parchi, i quali anche nel nome vogliono essere ricordo di Paradiso (parco è contrazione di paradiso, persiano pardésTi-giardlno), degradati poi col nome di Zone Verdi. Ma che cosa sono diventati, via via, questi bugiardi lembi di paradiso? Chi non passerebbe ben più volentieri una notte al sicuro, in una cella individuale di Rebibbia, piuttosto che su una panchina di Villa Borghese, dove anche gli aghi di pino sono siringhe infette? Un braccio femminile è mille volte più sicuro per una donna dell'attraversamento solitario, di notte, del parco Sempione! L'albero urbano (viale o oni ta ione giardino pubblico) non è foresta, libertà, rifugio, sfogo d'anima tra vite diverse dall'uomo, è nient'altro che immagine dell'uomo e immagine d'uomo significa sempre più crudelmente, poiché lo è ontologicamente, quel che aborrivamo di più: mura che chiudono e forzano, galera. Nel volume c'è un saggio sull'Architettura delle Prigioni, di Giovanni Michelucci, che si offre alla meditazione. La nuova edilizia carceraria (meno tetra, in tutto più respirabile) fu avviata dal regime fascista (sperimentalmente, in città piccole) per ridurre la separazione tra città e carcere, destinati a formare una sola, compatta polpetta totalitaria. Vedere il carcere di Orvieto, costruito nel 1936, anno del massimo trionfo fascista: nulla di diverso dal Foro Italico, dall'Università di Roma o da una qualunque Casa della Gioventù littoria (e architettonicamente molto più accogliente dei successivi palazzi dell'EUR). Ma la città totalitaria esemplare, con urbani messi in riga in cambio della liberazione dall'anofele malarica, fu Littoria (Latina) dove il carcere, del 1939, è «un anonimo edificio di servizio», «un vero e proprio avamposto delle future periferie» (Michelucci). E un moderno condominio di periferia «vive una condizione carceraria diffusa», con qualche cosa, aggiungo io, di più temibile del carcere vero e proprio, perché il condominio periferico è abbandonato a se stesso, non ha la protezione e la vigilanza della legge, è un bramito di giungla permanente, dove ogni tana è in pericolo e la libertà va in coppia con la paura. Dal pianterreno al decimo piano la cucina è dappertutto uguale: spaghetti-bistecca-insalata, panettone a Natale, tutto come in un carcere normale. La differenza è che la famiglia condominiale non butta via molto cibo, conserva gli avanzi, cucina con più intelligenza: il carcere, come la caserma, come l'ospizio, spreca enormemente, cucina le stesse cose ma in modo infame, nessuno mai leccherebbe quei piatti, tante volte restituiti pieni. Tra i comportamenti schizoidi delle nostre democrazie liberali di fine secolo c'è anche questo pro¬ digio: si emenda per quanto è possibile la condizione carceraria specifica, nell'irreprimibile degradarsi della convivenza e della socialità in generale all'esterno, nell'abbandono della città tutta intera al crimine e alle malattie psichiche e degenerative, senza che si possa far nulla per impedire questa ineluttabile trasformazione della totalità dell'ambiente urbano in un carcere d'altri tempi tuffato nell'elettronica, riempito di schiavitù carcerarie tipiche come lo stupro, il ricatto sessuale, lo scambio di favori che finisce per essere più importante e diffuso di quello per mezzo del denaro. In qualsiasi punto della città, in ogni ora del giorno e specialissimamente nelle serali, milioni di detenuti urbani vedono sul teleschermo le stesse cose dei condannati in giudizio e dei detenuti in attesa. I loro stessi giudici fanno altrettanto, esultando allo stesso modo per una rete del Milan o della Juve. Non vedo rimedi a questo imprigionamento collettivo, eccetto la via d'uscita biologica, il dissolversi del corpo, ammanettato, come lo vide William Blake, dalla mente (mind's manacles). Ci viene dietro sempre, la città... Un esempio che, nel mondo unificato e ugualitario, non si può dire preso di lontano, un esempio pregnantissimo: Gerusalemme. Nell'epoca turca, il carcere sultaniale doveva essere un inimmaginabile schifo, ma nel resto della città respiravi, tra ulivi, stracci e sporcizia una leggerezza, una libertà, non soltanto dovute all'incantamento spirituale del luogo: non c'erano condominii di periferia, né manette ideologiche, né paura del movimento... Questo è oggi impensabile, perché tutto lo spazio che fu e tuttora si chiama Gerusalemme è spiato, controllato, pattugliato, temuto, sospettato, perpetuamente minacciato, a causa del terrorismo. Dall'epoca del Mandato britannico si è messo in marcia contro Gerusalemme il Gog-Magog dell'invivibilità, fino all'assurdo logicissimo della creazione, a poco a poco, di un carcere tecnologico-militare assoluto. Si può dire che la lunga guerra non cesserà che per lasciare il posto ad mia specie di mostruoso carcere come forma estrema di una protezione necessaria. E questo sotto una democrazia laica e liberale che resta l'unica in tutto il vicino Oriente, impotente però ad impedire che tutta la città dei suoi sogni diventi uno spazio carcerario «di massima sicurezza» (dunque, senza respiro) e che il libero pellegrinaggio cristiano, ebraico, mussulmano somigli sempre di più ahi dolore!! - al girare in tondo dei detenuti di Newgate, a quel cortile di alte mura senza finestre dove risuonano in cadenza dei poveri passi sfiniti. Guido Ceronerti Un viaggio nella vita quotidiana da Procida a La Spezia a Rebibbia «Sono oscuramente attratto dai penitenziari come dai rettili e dalle grotte» La nuova edilizia delle prigioni fu avviata dal regime fascista che voleva ridurre la separazione tra detenuti e città usimi A centro pagina, una cella nel riformatorio giudiziario di Nisida; dall'alto, il carcere di Procida, quindi interni di vari istituti di pena: di La Spezia, di una località non precisata, del manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Qui sopra un bambino nel riformatorio di Nisida Dall'alto, immagini del carcere per minorenni dell'Aquila, una funzione religiosa a La Spezia, la casa di rieducazione minorile femminile a Brescia, una colonia agricola a Bengasi, un detenuto che dipinge in una cella di Noto