Storici eli un'ossessione di Domenico Quirico

Fra Gnu e Taiwan la seconda portaerei Usa Storici eli un'ossessione All'impero manca solo Taipei LA PICCOLA GRANDE ISOLA In libreria, a Taipei, ormai è introvabile; chi lo possiede, in questi giorni, lo rilegge con un occhio sempre rivolto alla tv, dove gli speaker ripetono gli inviti alla calma e le coordinate delle zone «a rischio missile» dove è meglio che aerei e imbarcazioni si tengano lontane. «T. Day, agosto 1995, la grande previsione del secolo» è soltanto un robusto libro di fiction politico-militare, pieno di intrighi e colpi di scena. Niente di straordinario se non per un piccolo particolare: racconta l'invasione di Taiwan da parte delle armate «rosse» di Deng l'ottavo mese dell'anno lunare 1995. Gli isolani, per cui come tutti i cinesi la superstizione e l'astrologia sono una seconda natura, hanno fatto i loro calcoli; e hanno scoperto che il mese corrisponde proprio all'inizio, nell'autunno scorso, delle «manovre» dei dispettosi confratelli del continente. E' quanto basta per allarmare una popolazione che vive da mezzo secolo in mobilitazione permanente e che fin dall'infanzia è sta- ta abituata a pensare al giorno in cui le orde comuniste avrebbero attraversato il mare per incidere il foruncolo della ribellione. In un pianeta di simboli la maledizione di Taiwan è quella di essere diventata il simbolo per eccellenza, la proiezione della rappresentazione geopolitica più graffiante per un miliardo e mezzo di cinesi; l'incarnazione passionale della loro volontà di raggiungere la definitiva riunificazione, archiviando l'epoca tragica in cui l'Impero del centro era abbandonato all'anarchia e all'umiliazione da parte dei barbari. Hong Kong (e Macao) sono ormai a un palmo dalla mano di Deng, il coronamento di una straordinaria carriera di rivoluzionario pragmatico e intollerante, un frutto che nemmeno Mao era mai riuscito a cogliere. Ma c'è quell'iso- letta dispettosa e ribelle che improvvisamente si è messa a sproloquiare di indipendenza e diversità. Cacciata dall'Onu, all'indice, costretta a mendicare il riconoscimento al massimo di pittore¬ schi monarchi africani e di screditate dittature sudamericane, ha risalito la china e ogni giorno esibisce la sua spropositata ricchezza, si è comprata sottobanco l'attenzione del mondo come ai tem- pi in cui serviva da sentinella della guerra fredda. Via via che la guerra civile, i giorni tumultuosi della Lunga Marcia si allontanavano nel tempo e l'ingombrante figura dei padri fondatori si appannava nel ricordo (Chang Kai-shek è passato in una penombra da seconda fila come il suo arcinemico Mao), nuove scandalose diversità si affacciavano sulla scena. 11 successo economico, per cominciare: gli attempati avvoltoi della Città proibita, alle prese con i cigolanti meccanismi del capitalcomunismo, devono guardare dal basso dei loro 490 dollari pio capite gli undicimila dollari degli «infelici» taiwanesi ancora nelle spire del capitalismo imperialistico. Quei venti milioni di traditori, assediati senza speranze sulla loro isoletta operosa, tumultuante, temeraria, sono uno dei primi detentori di riserve monetarie e il quattordicesimo esportatore mondiale. E non di pentole o tecnologie povere, ma ormai di computer e componentistica spaziale. Non sono la smorfia di una empietà le barche che ogni notte scivolano nello stretto portando i contadini poveri del Continente, aspiranti clandestini nell'isola dei cugini ricchi? E' l'unica invasione veramente riuscita al dragone di Pechino in questo mezzo secolo di minacce. E poi c'è la sfida più ribollente: per la prima volta nella storia una comunità cinese ha scelto e si è data un regime democratico, antitesi spettacolare ai modelli di Singapore o della Corea, le altre tigri economiche dove però l'autoritarismo conserva il controllo non solo del'economia, ma soprattutto della politica. Sono queste le modernizzazioni che piacciono tanto a Jang Zemin e ai suoi mandarini. Ma allora non è vero che gli asiatici sono condannati a vivere sotto un dispotismo al massimo illuminato; una società cinese può votare, senza per questo violare il cordone ombelicale con il suo passato, le sue vitali tradizioni. In questo continente simbolico il problema chiave è, sempre, quello di «non perdere la faccia». Chissà se può risultare utile l'immaginoso progetto del professor Yu Kien-hong, dell'università Sun Yat-sen: uscire dall'impasse costruendo una federazione di cui Pechino sarebbe la capitale esecutiva, Nanchino quella legislativa e Taiwan quella giudiziaria. Domenico Quirico Ormai Hong Kong e Macao sono recuperate i cannoni cinesi sono pronti a sparare proiettili veri su Taiwan

Persone citate: Chang Kai-shek, Jang Zemin, Mao, Sun Yat-sen