E TINO SCOTTI DEBUTTO' SOTTO I PONTI DEL NAVIGLIO di Oreste Del Buono

Amici Maestri Amici Maestri Il E TINO SCOTTI DEBUTTO' SOTTO I PONTI DEL NAVIGLIO Cavaliere e Bauscia, due personaggi per la rivista Anni 50 IA ITALIA, nei conV fronti di un attore ✓ che invecchia, è tremenda. Ti uccide, l'Italia, ti spezza le gambe. Già vorrebbe spezzartele appena arrivi a essere qualcuno, così te le spezza quando sei vecchio. Negli altri Paesi fanno tutto per tenere su le loro antiche glorie: cercano di farle lavorare quanto più possono, le rispettano. Forse farà parte della famelicità del nostro carattere. Comunque qui, appena invecchi, è come se fossi una brutta cosa da gettare via. Senza complimenti, senza pietà...». E' una delle più amare confessioni, tra le molte raccolte da Franca Faldini e Goffredo Fofi ne L'avventurosa storia del cinema italiano (Feltrinelli, 1979). A pronunciarla è Tino Scotti e riguarda tutti i modi di fare spettacolo. Non solo il cinema, ma anche il teatro e anche la radio, la televisione, anche l'avanspettacolo. E Tino Scotti non sarà stato eccelso, ma ha goduto pur sempre come attore di una clamorosa, anche se breve, popolarità. «Quando l'estate scorsa andò in scena al Dal Verme la rivista Sotto i ponti del Naviglio, il cuore batté forte ai vecchi milanesi. Prima di tutto, era di quelli che fanno battere il cuore dei vecchi milanesi il titolo che, parlando dei ponti di Milano, faceva pensare ai ponti, da venti anni scomparsi, del vecchio Naviglio non mai abbastanza compianto. In secondo luogo anche il nome del vecchio Dal Verme aveva una buona parte nella commozione generale. Si tratta, in ordine di grandezza, del secondo teatro milanese, dopo la Scala, sorto, credo, una settantina di anni or sono. Terzo motivo di commozione per i milanesi: Sotto iponti del Naviglio presentava tra i suoi interpreti, accanto alla bolognese Pina Renzi, un attore che recitava in milanese. Si ripete che recitava in milanese, tanto per indicare la differenza che correva tra il nuovo attore e gii altri attori, che, nati a Milano, non sono stati mai, o solamente in saltuarie occasioni, attori dialettali. Morto Ferravilla, che fu il maestro della Galli, il teatro dialettale milanese era andato declinando, precipitando anzi nella piatta imitazione dei tipi ferravilliani o tra le musichette del vaudeville rivistaiolo», si può leggere in un numero dell'Illustrazione italiana del 1951 a firma Orio Vergani. «La rivista cui Tino Scotti prendeva parte ebbe centinaia di repliche; varie centinaia di migliaia di spettatori lo applaudirono. I suoi due personaggi - il Cavaliere dal cappello grigio listato di nastro bianco, dal tight nero e dai pantaloni grigi, dall'eloquenza velocissima ed irta di strafalcioni e il Bauscia, il gradasso da periferia, spaccamontagne, pronto a camuffare come una vittoria la più veloce delle fughe -, diventarono popolari. Il successo di Scotti si può considerare come tardivo, come lo fu, del resto, quello di Govi. Tino Scotti ha quarantacinque anni ed è giunto tardi al successo com'era giunto tardi al teatro. Scotti è di statura piuttosto bassa, con la figura sottile e i capelli nerissimi, i baffetti triangolari, due occhi roteanti in un viso che non ha nulla di ilare. I tipi che incarna sulla scena sono, tanto quello del Cavaliere quanto quello del Bauscia, due diverse sfumature dello stesso carattere: il lestofante, il truffaldino, lo spaccone essenzialmente vigliacco, il millantatore e il ciarliero cavaliere d'industria. Insomma, due poco di buono. Nella vita è un uomo bonario che deve aver conosciuto anni duri confortati solamente da un divagare fantastico nelle osservazioni che obbedivano al suo antico istinto di caricaturista. La sua maschera è pronta alla smorfia scattante, quasi crudele. Egli stesso dice che non sente come quei due possano passare nel patetico o in un naturalismo che non sia surrealista e grottesco. "Non posso far dire al mio personaggio Ti amo... mi sentirei subito dentro una pugnalata. Una parola così lo ammazzerebbe..."». Era diventato attore un poco alla volta. Prima le trovate del caricaturista, le battute, poi il porgerle, la maniera del porgerle, studiata per necessità altrimenti sarebbero restate prive di qualsiasi valore, lettera morta. Aveva onorato tutto l'itinerario di tutto il teatro minore di rivista di prima della guerra, ai tempi delle compagnie di Rip e Bel Ami, ai tempi delle ultime compagnie del padre di Marisa Maresca, ai tempi di Gontrano Trucchi, ai tempi di Dedè Di Landa e della compagnia Erszi Paal, ai tempi di riviste pressoché dimenticate come Madama Follia o Crociera rosa. Aveva calcato un'infinità di palcoscenici di teatri provinciali o di teatri rionali, senza imporsi abbastanza all'attenzione del pubblico, al massimo venendo tollerato finché a Roma non aveva avuto la prima scrittura per un film. A scoprirlo, non c'è neppure da stupirsi, era stato il grande talent scout del cinema italiano Mario Mattoli, che lo aveva nel 1940 ammesso nel suo quarto film con Erminio Macario Non me lo dire. Soggetto: Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno ovvero Stefano Vanzina. Sceneggiatura Metz, Marchesi, Mario Mattoli, Scenografia: Piero Filippone. Suono: Franco Croci. Fotografia: Aldo bilio il pubblico, e allora il cinema si faceva avanti per ruotare attorno a loro tutto il resto, gli altri attori o la spalla non contavano. L'importante, per il cinema, era di dare al comico, soprattutto attraverso gli sketch e le gag che lui aveva collaudato in palcoscenico, la possibilità di far ridere il grosso pubblico delle sale cinematografiche. Così, quando in questo tipo di film uno sceneggiatore voleva magari mettere bocca in uno sketch che io o Fabrizi o Totò avevamo già verificato con le platee dei teatri e ci suggeriva di tagliare o modificare una battuta, gh rispondavamo "Scusi, e lei che ne sa? Glielo ha tastato, il polso agli spettatori? Be', noi sì". Insomma nei film a sketch comici di quegli anni quasi quasi gli sceneggiatori non ci servivano. Posso ricordare come sceneggiatori in grado di darci un contributo per quelle pellicole solo persone come un Marchesi, un Metz, uno Steno, un Monicelli, perché le to¬ rnente a occuparsi anche di sceneggiatura perché come aveva scritto le battute per i disegnatori Attalo o De Seta aveva scritto le gag per i film di Steno o Monicelli. Al gruppo del Marc'Aurelio capitava di mandare avanti più di una sceneggiatura, e più di un film insieme. Ettore Scola riferisce di una sua visita all'albergo "Moderno" dove abitava Marcello Marchesi per sottoporgh le battute e le scenette che gli eran state richieste. Sul letto della stanza erano disseminati sei blocchi di fogli di sei sceneggiature. E Marchesi aveva letto le sue cose e le aveva smistate, commentando: "Questa non va bene qui, ma può andare bene in quest'altro film...". E così via». «Una vera catena di montaggio», insiste Ettore Scala. «La prima collaborazione con Ruggero Maccari fu, durante il mio periodo di "negritudine" con Fermi tutti, arrivo io! nel 1953 per Scotti che credo sia stato il primo film in cui è Fu scoperto nel '40 da Mario Mattoli che lo volle accanto a Macario nel film «Non me lo dire» Tonti. Musica: Cesare A. Bixio. Montaggio: Mario Serandrei. Interpreti: Jimmy, Macario; Priscilla, Vanda Osiris; Luisella, Silvana Jachino, ecc. Il suo era l'ultimo nome citato, dopo quelli di Enzo Biliotli, Nino Pavese, Guglielmo Barnabò, Guglielmo Sinaz, Carlo Rizzo, Amleto Filippi, Erminio D'Ohvo. Ultimo citato, ma esattamente qualificato: il matto. Tino Scotti. Una particina, apparentemente. Ma in una particina di pazzo vero, mentre Macario interpretava un pazzo presunto. Una particina folgorante di motociclista pazzo per la velocità, che non era passata inosservata. La critica lo aveva, infatti, molto elogiato. «Questi film nascevano sempre da uno spunto teatrale o da uno sketch che già si era sperimentato sul palcoscenico», troviamo ancora nelle confessioni di Tino Scotti. «Dopo si sceneggiavano per il cinema e venivano girati negli stabilimenti cinematografici o, se eravamo impegnati in tournée, la troupe ci seguiva nella piazza in cui ci trovavamo e giravamo in teatro lo sketch, a volte nel pomeriggio, a volte durante lo spettacolo, con la macchina fissa messa tra il pubblico. Il cinema non sceglieva gli sketch con un criterio particolare, sceglieva piuttosto i comici. C'erano dei comici che si erano creati una personalità che mandava in visi- Due immagini di Tino Scolti in alto con Beniamino Maffo ro radici affondavano nell'avanspettacolo e conoscevano i canoni della comicità...». Tutta gente targata Marc'Aurelio, bisettimanale umoristico romano. Il futuro regista Ettore Scola, che, attraverso la collaborazione con il Marc'Aurelio, entrò da ragazzo in quella singolare officina cinematografica romana, ricorda, sempre ne L'avventurosa storia del cinema italiano, quel periodo come l'unico momento industriale del cinema italiano. Lui non aveva secondi fini cinematografici quando era penetrato nella redazione del Marc'Aurelio offrendo delle vignette disegnate con passione, e si era trovato di colpo a essere il più giovane, il ragazzo di studio, dando, in un certo senso, il cambio a Federico Fellini che se ne era appena andato. Aveva cominciato quasi natural- II declino sul finire degli Anni Settanta fra tanti debiti e manìa di grandezza comparsa la mia firma tra gli sceneggiatori. Da "negro" non avevo rapporti con nessuno, se non con lo sceneggiatore che mi aveva commissionato le gag. Addirittura ero pagato direttamente, in spiccioli, dallo sceneggiatore con cui lavoravo, come Marchesi, alla consegna. Poi il rapporto diventò diretto con l'attore. Scrivevamo, pensando immediatamente al comico per cui si lavorava, per Totò, per Rascel o per il "Cavalie re", per Tino Scotti, che ebbe un momento di successo non abbiet to, perché portava mi tipo di umorismo surreale, poco italia no...». «Nei film fatti su di me Steno era quello che intuiva, vedeva immediatamente la situazione comica e badava molto a me», te stimonia Tino Scotti con riconoscenza. «Si informava di cosa ne pensavo, se avevo intenzioni di svilupparla e in che senso sem mai o mi chiedeva se avevo qua! cosa di mio, vecchio o nuovo che fosse, da inserirci. Monicelli in vece coordinava il tutto, e badava di più alla regia. E" arrivato il Cavaliere, nel 1950, fu il primo film fatto apposta per me da Metz, Marchesi, Steno e Monicel li. Ricordo che si davano un gran da fare perché come registi erano proprio agli inizi. Comunque, ci conoscevamo già tutti o quasi dai tempi della caricatura e da quelli in cui loro scrivevano gli sketch per me e Fabrizi nell'avanspettacolo. Nel caso particolare di E' arrivato il Cavaliere, partecipai anche alla sceneggiatura perché il film era tratto da una rivista scritta da me, Metz e Marchesi Ghepensi mi!... Il film fece successo, in breve tempo divenni per gli italiani il Cavaliere o il Signor Ghe pensi mi... Il cinema in quegli anni dava una popolarità travolgente. La gente ti fermava pei strada, gli uomini volevano l'autografo sul polsino, le ragazze sulla borsa, ti toccavano, non potevi più circolare come un comune mortale...». S'è detto che la celebrità di Tino Scotti non ebbe grande durata. In una serie di severe e impegnatissime critiche del varietà tra il 1952 e il 1961 a firma di Morando Morandini raccolte sotto il titolo Sessappiglio (Il Formichiere, 1978) è possibile leggere in data 1 agosto 1953 una vibrante recensione ad Agitatissimo, rivista presentata la sera prima al rinnovato Odeon di Milano: «Tino Scotti è uno strano attore: si agita in continuazione ma non si muove mai. Rappresenta un singolare, quasi patologico caso di rigorosa fedeltà a se stesso, ai propri inizi; come la maggior parte dei nostri comici, viene dall'avanspettacolo, ma, nonostante i milioni guadagnati (specialmente col cinema) e la vasta popolarità raggiunta, è sempre quello di un tempo. Questo miles gloriosus del nostro teatro di rivista fa pensare a uno schermidore che abbia nel suo repertorio non più di un paio di parate e di un unico modo d'attacco: la botta dritta. Dotato di una comicità autentica pur nella sua grossolanità, di un suo geniaccio della risata, non si è mai preoccupato di raffinarsi, di variare il proprio gioco. E' un attore chiuso in se stesso, negato alla creazione di un qualsiasi personaggio che non sia quello che ripete all'infinito (ma senza variazioni, qui sta il caso patologico) da quando ha cominciato a recitare. Nella rivista che è stata varata ieri sera all'Odeon, Tino Scotti fa quattro uscite: spara una di quelle filastrocche slegate e rapidissime che gli sono peculiari, «recita» in uno sketch, s'esibisce in una fiacca imitazione del Signor Veneranda, rifa per l'ennesima volta el bauscia. Può darsi che al pubblico basti. Chi si contenta gode». Alla raccolta delle sue critiche del varietà dal 1952 al 1961, Morando Morandini premise nel 1978 la storia del suo esordio come critico professionale su La Notte di Milano del 6 dicembre 1952. Quel giorno, infatti, andò in edicola il primo numero de La Notte, quotidiano del pomeriggio inoltrato. Correva voce che fosse un giornale elettorale e invece è durato sino a poco tempo fa e già si parla di possibile resurrezione. Morandini era stato assunto come redattore unico della pagina degli spettacoli. Una delle sue mansioni era quella di far da tramite e da punto di riferimento ai critici di quella pagina: Eugenio Ferdinando Palmieri por il teatro, Alceo Toni per la musica, Enzo Biagi per il cinema. C'era anche un critico per la rivista che però alla vigilia dell'uscita del giornale tergiversò, chiedendo di rinviare di qualche settimana l'inizio della collaborazione. Nino Nutrizio, direttore della Notte, era molto temperamentale, aveva decisioni rapide e al «Mediolanum» a recensire Tarantella Napoletana mando il redattore unico della pagina degli spettacoli. «Cominciai per caso e continuai per dieci anni, ogni anno che passava, la mia noia aumentava», ammetteva Morando Morandini, affermatosi passando da la Notte a II Giorno come critico cinematografico. «Nel rileggermi oggi con insoddisfazione, e qua e là non senza fastidio, trovo che il giovane recensore di allora era un po' troppo moralista, un po' troppo borghese e benpensante...». Ma con Tino Scotti è più che mai severo nel 1978. Alla recensione di un tempo aggiunge infatti una nota: «In cresta all'onda del successo, Scotti si cimentò in quel periodo persino nella produzione di un film. I morti non pagano tasse da una commedia di Manzari, che lo fece sprofondare nei debiti e nelle tasse arretrate da pagare. Era così euforico e grandioso che, più di una volta, durante le prove di Agitatissimo, invece di presentarsi di persona, mandava un nastro in cui aveva inciso le proprie battute...». Oreste del Buono

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