SEMPRUN: L'ORRORE NELLO SGUARDO di Sergio Pent

N N N ON ha paura, Renato Mino| re, critico letterario de) .Messaggero e saggista, del | titolo dato al suo primo romanzo in uscita da Mondadori, lì dominio dei cuore: «C'è Cuore di tenebra, c'ò Cuore di De Amicis...». Un romanzo dove la tv <: una presenza continua, Inocchio della simulazione, la rappresentazione del modo di vivere contemporaneo» ma che non e certo un pamphlet sulla tv. Dove il personaggio al quale sembrano condurre tutti i percorsi della vicenda, lo scrittore morto cui il dirigente televisivo, stereotipo ansioso del potere, dee ice di dedicare un programma, assomiglia a Flaiano, ma non è Flaiano, o non solo, in realtà un'ombra. Dove compare, altrettanta ombra, il Maestro dei Maestri-Fellini; dove si muovono, comparse «da mezzo miliardo di anni fa», Marisa Allasio e Mario Riva, Coppi e il Quartetto Cetra ma non è nostalgia. Dove il gioco ò sempre presente, ma non e tutto. Dove una storia d'amore, «cuore» del plot, e un sentimento percosso, «strattonato». Dove, al culmine della collina, in una sorta di incontro religioso con il dolore s'intravede «l'indicazione di una possibilità...», intuita da una donna. Storie di questi ultimi trent'anni, presente e passalo in percorsi paralleli, materia resa impalpabile 0 implacabile come gli angeli di Wenders dalla scommessa di l'ondo: la tenuta della letteratura, la narrazione come sempre cammino di conoscenza e di svelamento. In una «leggerezza geometrica» in cui si «sentono» i grandi veri maestri dell'autore in un sapori; «veloce con brio». Un approdo (rutto di un lento avvicinamento, ira Leopardi e Rimbaud, lungamente elaborato. Che sia li, per Minore, il «dominio del cuore»? Nel potere salvifico della scrittura? Anche Cacciari socio Marsilio Un tormentoni', dice Cesare De Michelis spazientito, «da anni mi si chiede se la Marsilio e in vendita. Dipende da che cosa mi date, rispondo...». Qualcosa pero sta avvenendo: l'operazione di azionariato diti uso, ma «aristocratico», che fornirà 2(1 nuovi soci, anche Cacciari, apporto complessivo di un miliardo. Perché allora il presidente mastica un po' amaro? La casa edilrice '• vivace su tutti i suoi fronti e in più quello cibernetico: dopo il catalogo della Biennale, arriva un cdrom + libro con la. famiglia dell'antiquario in edizione critica elettronica e saggio di Luca Toschi, curatore del tutto Goldoni in periodica pubblicazione, mentre si apre la linea della solidarietà con la collana «Dalla parte dei deboli» e sembra funzionare bene il filone «nuove scoperti;». L'amaro certo si chiama Margaret Mazzantini, «covata» a Venezia e ora passata a Segrete, una piccola seconda Tamaro. L'a- SEMPRUN: L'ORRORE NELLO SGUARDO « pmaro si chiama Milano, la «capitale editoriali;» sempre «più scorretta»: «Saro più ricco, piti forte, con più alleati e laro in modo che la gente vada meno impunita». La poesia non fa punti "Prego, recensitemi. Un articolo sul vostro giornale vale punti». Se altri quotidiani (i regionali valgono solo 1 ) faranno altrettanto la supplice potrà vincere gli 8 milioni del Premio "Poesia Donna - (Eco della critica) 1995"». Richieste ingenue di questo tipo sono arrivate numerose a Ut Stampa da sconosciute esordienti, accluso quadernetto-assaggio autofinanziato di 4 componimenti con sigla dell'editore Joppolo di Milano inventore del premio. «Pubblicherò i testi vincitori», assicura Joppolo, che dice di amare la poesia ma di non poter affrontare, senza riscontri critici, l'incognita di un nome «nuovo». E' chiaro che i giornali, almeno quelli a 3 punti, difficilmente risponderanno all'appello. Nella giungla delle fabbriche di illusioni (a pagamento), questa sembra distinguersi per la sua irrealtà. Non meno pericolosa. La scrii tura o la vita»: l'ossessione del Lager STANNO davanti a me, con gli occhi sbarrati, e d'improvviso io mi vedo nel loro sguardo di terrore: nel loro sgomento. Da due anni vivevo senza volto... vedevo il mio corpo, la sua crescente magrezza, una volta alla settimana, alle docce... Smagrito ma vivo: il sangue circolava ancora, nulla da temere... La prova, del resto, è che sono qui. Mi guardano, con gli occhi impauriti, pieni di orrore... Devono aver già visto di peggio. Se seguono le armate alleate che si addentrano nella Germania, questa primavera, hanno già visto di peggio. Altri campi, cadaveri viventi... Non resta altro che il mio sguardo, concludo, che possa lasciarli tanto sbalorditi. E' l'orrore del mio sguardo che il loro sguardo, pieno di orrore, rivela». Comincia cosi l'ultimo libro di Jorge Semprùn, La scrittura o la vita, e in quei pochi paragrafi essenziali sta non soltanto il senso del libro ma anche il senso della vita dello scrittore. E' l'aprile del 1945 e Semprùn, spagnolo, esule dalla Spagna abbandonata all'età di 17 anni, perché il padre era governatore di Toledo al tempo della guerra civile, deportato a Buchenwald perché partigiano in Francia, incontra, alle porte del campo appena liberato, tre ufficiali in Iji diffìcile scommessa dello scrittore spagnolo: «mettere in ordine la morte», liberarsene, ripa isando alla deportazione nel campo di lìuclienirald uniforme britannica. Due sono un poco piii vecchi, il terzo ha più o meno la sua età, vale a dire 21 anni. Ed e lui, il più giovane, a guardarlo con orrore, atterrito. Non sono atterriti dal silenzio della foresta né dalla mancanza di uccelli, cacciati dal fumo del forno crematorio, neppure dall'odore che dopo verrà descritto, ma da tutto questo, riflesso nello sguardo del ragazzo di 21 anni. E fuggono, gli ufficiali inglesi, incapaci di sostenerlo. Da quello sguardo, dal suo stesso sguardo, anche Semprùn era fuggito fino ad oggi, fino al 1994 quando ha scritto, in francese, questo libro che fu poi tradotto l'anno seguente in Spagna. Per quasi cinquantanni aveva tentato invano di mettere in qualche forma il ricordo di Buchenwald. Non c'era mai riuscito. E, in un certo senso, in forma ordinata, si può dire che non ci sia riuscito neppure oggi. La scrittura o la vita non è infatti un ricordo di Buchenwald, anche se a pezzi, come incubi, ma anche come termini fatali dell'esistenza, compaiono scene indimenticabili: l'unico ebreo sopravvissuto in mezzo a mucchi e mucchi di cadaveri, identificato perché recita con un filo di voce il Kaddish, cioè la preghiera dei morti, e poi tenuto in vita da Semprùn che gli recita a sua volto poesia francese, e la Paloma cantata in tedesco (ma questo accade prima) dal soldato tedesco che i partigiani francesi dovrebbero uccidere e poi, in effetti, uccidono, e il vecchio comunista che vorrebbe rieducare i nazisti, e il tedesco che invece irrimediabilmente condanna la Germania, e gli abitanti della bella cittadina di Weimar, cosi poco distante da Buchenwald, che vengono portati per la prima volta a vedere il crematorio, e le donne che implorano il perdono con gesti teatrali, gli adolescenti che si murano in un silenzio disperato. Tutto questo c'è ma come ondate dell'odore melmoso di quell'estuario di morte da cui lo scrittore vorrebbe liberarsi. E per anni, lo tiene a bada Mirella Appiotti LA non piccola ambizione di Giuliana Morandini, nel suo romanzo Giocando a dama con la luna, è di indagare coni-;, nella Germania della seconda metà dell'Ottocento, abbiano potuto convivere la passione della bellezza, incarnata nei miti e nell'arte greca, e lo spirito di conquista, la passione della guerra, il lucido disegno di potenza economica e militare. Da un lato, c'è l'assoluta purezza delle imprese di archeologi che si scoprono tali provenendo da tult'altri interessi e studi, come il protagonista (storico) del romanzo, Cari Humann, che un giorno esce dalla lezione del Politecnico che stava frequentando e raggiunge a Costantinopoli il fratello Franz, e in Turchia diviene intrinseco del Vizir, a cui propone la costruzione di una ferrovia da Costantinopoli a Smirne, seguendo il sogno del mondo greco dell'Asia Minore e delle isole dell'Egeo che egli vuole visitare e conoscere a fondo; dall'altro c'è la Germania che si è imposta in Europa con la sua ambizione imperiale, consacrala dalla vitioria sulla Francia nel 1870 e dalla straordinaria espansione economica. Cari, come il fratello Wihelm, è ammalato di tubercolosi: e la classicità, allora, incarna per lui anche la solarità, la salute, l'armonia spir.tuale e fisica. Il romanzo segue le esplorazioni, le indagini, i viaggi di Cari lungo le cosle della Turchia, fino al ritrovamento del luogo dove sorgeva la citta di Pergamo, capitale della dinastia degli Attalidi, sorta dopi ' aorte di Alessandro Magno e . divisione dell'impero conquistato fra i generali macedoni. A poco a poco, con scavi pazienti, incominciano a delincarsi su un'altura i segni della città e a emergere dalla terra statue straordinarie perché diverse dalla scultura fino alla fine dell'Ottocento considerata tipica del mondo greco Sono figure contorte, convulse, mostri giganteschi e serpentiformi, a cui si contrappongono le divinità olimpiche, solari chiuse nell'astratta e feroce determinazione della strage degli esseri generati dalla Terra madre, enormi e deformi, che ebbero l'ardire di sfidare gli dei del cielo, loro che appartenevano al mondo di giù, cieco e irrazionale. Cari scopre cosi, con infinita pazienza e con profonda e giocosa meraviglia, la grande arte dell'altare di Pergamo, costruito per esaltare, attraverso il mito delia vittoria degli dei sui Giganti, il trionfo dei re di Pergamo a difesa SCAVARE LABELLEZZA L'archeologo della Morandini sono conversazioni con amici e seguaci nello spirito di entusiastica riscoperta della classicità diversa delle città dell'arte dell'Asia Minore. Cari arriva a un tale punto di identificazione spirituale con lo scultore dell'altare di Pergamo che, a tratti, il racconto li identifica e li confonde al di là dei secoli, e il racconto diviene non più quello del ritrovamento delle statue antiche, ma quello della loro erezione. L'altare di Pergamo, come è noto, andrà a finire a Berlino, dove è conservato tuttora e a questo punto ecco che l'identificazione del mito che vi è raffigurato con quello germanico della guerra necessaria per il dominio e la conquista contro i popoli inferiori diviene il motivo d'orgoglio e di trionfo nell'animo dei visitatori del museo, e il classicismo tedesco ne riceve un ulteriore impulso nella superba certezza dei tedeschi di essere in lutto gli eredi della grecità. L'ultimo capitolo del romanzo di colpo, disperatamente, rivela l'altra faccia della storia. Siamo a Berlino, nella primavera del 1945, la città è distrutta, e dalla sua casa sconvolta, nel fumo degli incendi e fra le esplosioni, Marie Humann, la figlia di Cari, contempla la rovina. Tutti gli amici sono morti, nella guerra o uccisi in tentativi di ribellione a Hitler; la stessa figlia Marie Louise è finita in campo di concentramento. Il mito della grecità reincarnata è morto. La Morandini racconta il sorgere, l'imporsi, il trionfo di questo mito, ma anche il tarlo che c'è dentro di credersi, i tedeschi, reincarnazioni degli dei dell'Olimpo per bellezza e forza. La tisi di Cari ò il sintomo di un che di malato in tale classicismo. Il romanzo è pieno del fascino vivo dell'arto che ritorna alla luce dopo i secoli e le distruzioni, ma anche di profonda malinconia. Il limite è una certa ripetitività, una prolissità descrittiva, qualche esitazione nell'incastro fra i tempi antichi e moderni e nell'identificazione del male intrinseco al classicismo imperiale e, dopo, hitleriano, che è problema certamente degno di essere affrontato e rappresentato per rispondere alla domanda come possono intenzioni pure e nobili mescolarsi con l'ideologia di guerra e di morte. del mondo greco contro i feroci invasori barbari, i Calati. E' affascinato dalla potenza della rappresentazione, ma anche dalla capacità dello scultore di raffigurare, insieme con i vincitori olimpici nella loro purezza e sublimità, anche il dolore dei vinti. L'ingegnere diventato archeologo cerca di comprendere sempre pili a fondo il messaggio di quella scultura: la necessita della guerra in un mondo che deve difendere ordine e ragione, e si batte e vince in nome di questi valori, ma anche l'impulso a esistere e a imporre la propria necessità e volontà di vita che i «barbari» invasori nutrono in sé e che li porta allo scontro. Gran parte del romanzo racconta l'andirivieni di Cari lungo le coste dell'Egeo e nell'immediato retroterra, fra Pergamo, Smirne, poi Efeso e Mileto, dovunque egli veda rovine da scavare, per ritrovare i resti dell'antica bellezza. Sono pagine spesso di grande delicatezza lirica. E ci sono incontri con altri avventurosi archeologi, come lo scopritore di Troia, Schliemann, ci Jorge Sem/» ti/1 pul>l>lira <la Quando «La scrittura o lo vita» perché non sa come raccontarlo, perché non c'è parola umana che riesca ad essere adeguata. Scrive altre cose, Il grande viaggio, e le sceneggiature di Costa-Gavras e di Alain Resnais sulla lotta antifascista, e la storia della sua stessa espulsione da! partito comunista nel 1964, ma di Buchenwald no, non scrive. E, a scandire La scrittura o la vita sono in contrappunto i tentativi falliti, e le improvvise, fatali vampate che lo invadono per anni, al ricordo del campo. Una sorta di serenità, di identità alla rovescia: come una morte nella vita. Poi, senza che il procedimento sia chiaro al lettore e neppure allo scrittore, proprio perché fatto di tanti momenti diversi, di tanti appuntamenti con il destino (anniversari, la neve, la morie di Primo Levi e, infine, il ritorno al campo con i propri nipoti) lo scrittore riesce a diventare altro: un altro io, un altro se stesso, e ha luogo questo «mettere in ordine la morte». In una struttura che, a ragione, si può considerare unica e angosciante e estenuante e restituisce, quasi per miracolo, lo sguardo del ragazzo di 21 anni in quell'aprile del 1945. Angela Bianchini Jorge Semprùn La scrittura o la vita Traduzione di Antonietta Sanna Guanda, pp. 283, L 29.500 Giorgio Bàrberi Squarotti Giuliana Morandini Giocando a dama con la luna Bompiani pp. 195. L. 28.000 DONNE SOLE QUANTI GUAI Nf ELLA vita siamo un po' tutti turisti per caso. Raggiungere un privilegiato punto d'osservazione sul mondo e da li inviare dritte e indicazioni di rotta, può già risultare un buon vantaggio sulla bruta sopravvivenza quotidiana in cui i più annaspano. Dal suo nido d'aquila cosmopolita Gaia de Beaumont stila le pagine di un ideale taccuino di fine secolo, per «donne in cerca di guai», come direbbe Zucchero. Viaggia molto, la Gaia, ed è causa di un forte disagio vederla persa nel dubbio di come sfruttare un omaggio della sua compagnia aerea ai pendolari più fedeli: Porto Rico o le Hawaii? Di questi vezzi finto snobistici è zeppo il diario di bordo dell'autrice, che comunque offre l'impressione di sapersi anche prendere un po' in giro, per fortuna. I suoi consigli per gli acquisti sono talvolta il sintomo di una mal calcolata indifferenza nei confronti del mondo. Più spesso, a forza di starne quel battito d'ali al di sopra, si rischia di venirne esiliati. E la vita da single, sospira Gaia, non è sempre una vasca profumata di rose e beata solitudine, ma comporta anche i rischi di una progressiva paranoia. Tutto sommato è meglio trovarsi - di tanto in tanto - un marito, un compagno, o incontrare qualcuno con cui la storia sia già chiusa, così per sfogliare un po' i ricordi. Tutto sommato meglio ancora! - occuparsi del proprio cane, parlargli, preoccuparsi di lui come di se stessi, è ancora una delle più concrete soddisfazioni per bruciare il tempo. Emerge, al di là di tutto, la Donna del Duemila, da queste pagine di diario; una donna ancora vittima della routine quo¬ tidiana, dell'orgasmo obbligatorio, della casa come dignitoso regno privato, delle diete postmoderne e dei figli croce e delizia. Una donna che vorrebbe, come fa la de Beaumont, invelenire la banalità quotidiana con le frecciatine della sua superiore indipendenza psicologica. C'è di tutto, a ben vedere, in queste pagine che talvolta riecheggiano le rubriche di consigli delle riviste femminili: gli argomenti sono numerosi, ai già citati aggiungeremmo almeno il capitolo - divertente - sui Sentimenti e quello sui Posti, di cui il Supermercato rappresenta l'apoteosi della banalità pragmatica divenuta per molti l'unica forma di autorealizzazione. In fondo al calderone aleggia un briciolo di sana paura. A forza di correre a vuoto, di perfezionare il quadro del progresso fine a se stesso, di cercare il meglio ad ogni costo sfruttando i soliti modesti parametri umani di confronto, l'uomo - e la donna - di questo fine secolo rischiano la musata di una definitiva isteria collettiva. «Personalmente credo che ci sarà poco da ridere» osserva saggiamente Gaia de Beaumont. «Sospetto che non ci sarà più neanche il whisky». Un'ironia privilegiata, ripetiamo, che non tiene conto forse di necessità sociali contingenti ben più brutali, ma è pur sempre un grido d'allarme da parte di chi, comunque, in un mondo che dovrebbe sempre più conoscersi e invitarsi a cena, non riesce a trovare un interlocutore «vero» da fissare dritto negli occhi e con cui improvvisare un barlume di dialogo umano. Sergio Pent Gaia de Beaumont Ghiaia Marsilio pp. 267. L. 25.000