Una Costituente contro i corrotti di Sergio Romano

i misteri di un romanzo inedito sulla decadenza del Ventennio L'Italia spiegata agli americani Una Costituente contro i corrotti Samuel Barnes, David Calleo, John Holmes, Edward Luttwak: sono alcuni degli americani, esperti del nostro Paese, che domani e domenica parteciperanno a Washington alla conferenza organizzata dalla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University di Washington e dall'Istituto Affari Internazionali di Roma. Fra gli studiosi italiani (oltre a Giuliano Amato, Stefano Zamagni, Cesare Merlini, Livio Caputo e Gian Giacomo Migone), ci sarà anche Sergio Romano, del quale pubblichiamo la relazione. BE condizioni ideali per una grande riforma costituzionale sono quelle in cui il vecchio sistema crolla sotto il peso dei propri errori o della sconfitta militare. In Italia, sfortunatamente, non vi sono né vincitori né sconfitti. La prima Repubblica è fallita, ma i custodi della vecchia Costituzione sono ancora solidamente arroccati nell'establishment istituzionale, nei partiti politici, nel settore pubblico dell'economia. Gli scandali e il debito pubblico non hanno ripulito il Paese dalla sua vecchia classe dirigente. Hanno semplicemente costretto i partiti a sbarazzarsi dei loro esponenti più imbarazzanti. Con qualche eccezione ogni forza politica ha in sé una equilibrata combinazione di vecchio e di nuovo. Il segno più evidente di questa ambiguità è la personalità dei due leaders, Berlusconi e Prodi, che aspirano a governare il Paese. Sono nuovi perché hanno saputo cogliere il vento del cambiamento e hanno cercato di creare un nuovo movimento politico. Sono vecchi perché il primo deve al vecchio sistema una buona parte dei suoi successi aziendali e il secondo la maggior pai ce della sua vita pubblica. E' questa la ragione principale dello stallo italiano. La tesi corrente secondo cui le riforme costituzionali richiedono consenso e compromessi è soltanto l'ipocrita finzione dietro la quale nascondiamo la nostra impotenza. I compromessi costituzionali sono possibili e funzionali quando sono conclusi tra le diverse fazioni del partito vincitore. Sono difficili e generalmente mediocri quando sono conclusi fra i rappresentanti di un sistema che non è ancora morto e quelli di un sistema che non è ancora nato. Resto convinto che l'unica via per uscire da questo vicolo cieco sia un'Assemblea costituente, eletta con la proporzionale. I suoi membri sarebbero pur sempre espressione dei partiti politici. Ma a differenza di quanto è accaduto sinora avrebbero un forte mandato popolare, lavorerebbero sotto gli occhi dell'opinione pubblica, sarebbero vincolati dalla necessità di progettare una costruzione organica, obbedirebbero alla logica del cambiamento costituzionale piuttosto che a quella delle convenienze politiche. Qualcuno, probabilmente, si chiederà se una nuova Costituzione possa da sola modificare le radicate abitudini della vita politica italiana. Il dubbio è legittimo. Il sistema, politico, come si è andato configurando col passare del tempo, è il risultato della cultura e delle tradizioni italiane. Siamo un Paese di famiglie e corporazioni sovrane il cui unico interesse comune è quello d'impedire che lo Stato imponga la sua autorità. Gli uomini d'affari sono disposti a tollerare la sciatteria burocratica dei poteri pubblici purché si consenta loro di sfuggire ad alcune regole del mercato. L'ordine giudiziario è pronto a convivere con l'inefficienza del sistema processuale purché gli si consenta di amministrarsi come una potenza sovrana. I giornalisti sono pronti a tener conto degli interessi economici dei loro editori purché abbiano il diritto di preservare i vantaggi economici della loro corporazione. E i cittadini non si rivolteranno contro le disastrose condizioni della burocrazia finché avranno una ragionevole speranza di aggirare la legge e disporranno di «agganci» necessari per risolvere i loro problemi personali. La corruzione italiana non è l'effetto della personale corruzione di alcuni uomini politici. E' l'inevitabile risultato di un sistema in cui non esiste un arbitro capace d'imporre la propria volontà e in cui tutto diventa materia d'interminabili negoziati, contrattazioni, baratti. Più che di una nuova Costituzione, quindi, l'Italia ha bisogno di una rivoluzione culturale. Ma poiché nessuno sa come si progettino le rivoluzioni culturali e quali risultati possano sortire, occorre sperare che nuove regole costituzionali abbiano l'effetto di accelerare la voglia di cambiamento oggi presente nella società italiana e d'incoraggiare migliori comportamenti civili. Questa esigenza è strettamente collegata alla posizione dell'Italia in Europa. L'inizio della crisi coincide con la firma del trattato di Maastricht e con la creazione dell'Unione monetaria. E' stata una semplice coincidenza? Credo che il trattato abbia sottolineato e resi visibili tutti i peccati del sistema politico italiano. I criteri per la partecipazione all'Unione, che il governo italiano ha entusiasticamente sottoscritto, hanno dimostrato alla parte più informata dell'opinione pubblica che il Paese può esservi ammesso soltanto a patto di radicali cambiamenti costituzionali. La nostra presenza in Europa non dipende soltanto dalla progressiva riduzione del nostro colossale debito e dal rapido assorbimento del disavanzo. Dipende anche e soprattutto da un sistema politico che garantisca governi stabili, strategie politiche di lungo respiro, decisioni ragionevolmente rapide. Un sistema fondato su negoziati costosi e interminabili, costruito per tirare a bordo il maggior numero possibile di soci e di complici, non è compatibile con i ritmi politici e l'efficienza amministrativa dell'Unione europea. Il momento è cruciale. La posta in gioco non è soltanto la riforma politica o la moneta comune, ma lo status e la collocazione culturale del Paese. Se la riforma fallisce l'Italia potrebbe vedersi respinta ai margini del continente e a costretta a ricadere, come nei secoli che precedettero l'Unità, nel Mediterraneo. E' difficile immaginare che le regioni più avanzate e prospere dell'Italia del Nord accettino di essere private di prosperità e status internazionale. In questa prospettiva, assai più che nei fumosi programmi politici della Lega, si nasconde il pericolo di una divisione nazionale. Sergio Romano