GARBOLI Il mio Novecento di Natalia Ginzburg

LA STAMPA L'INTERVISTA GARBOLI // mio Novecento EROMA LI indimenticabili. Non c'è dubbio: è lui che ci aiuta a non seppellirli, a non metterli da parte, a non dimenticarli. Sandro Penna e Antonio Delfini, Elsa Morante e Natalia Ginzburg, Roberto Longhi, sono autori importanti ma, toccati dalla sua penna magica, acquistano splendore, una particolare luce. E a sua volta, lui, Cesare Garboli, gran maestro della critica italiana, i suoi scrittori non li dimentica facilmente. E' fedele negli anni e, ogni tanto, ritorna ai vecchi amori e li arricchisce di nuovi contributi e saggi. Sta uscendo proprio in questi giorni da Garzanti una nuova edizione accresciuta del Penna Papers, mentre a brevissima scadenza farà la sua apparizione in libreria Penna, Montale e il desiderio (Mondadori), dove il critico sviluppa una tesi a cui si sta applicando da tempo: quella dell'esistenza di un punto di incontro tra due poeti diversissimi come Penna e Montale, con un'influenza del primo sull'autore degli Ossi di seppia. E allora, siamo pronti a ricostruire la storia della poesia italiana; si annuncia un capovolgimento nella gerarchia della lirica? «Niente di più lontano dalle mie intenzioni - afferma Garboli sono solo convinto che ci sia stato un influsso di Penna sui Mottetti di Montale. Per il resto credo che la poesia di Penna nasca da quel minimo di tollerabilità del vivere di cui Gianfranco Contini parlava a proposito di Montale e cioè da un grado zero di depressione. Montale reagiva portando la poesia verso una dimensione metafisica. Penna contrastava la depressione attraverso un desiderio trasgressivo, perverso, ossia sentendosi vivo mediante una continua ricerca di eros, di appagamento sensuale che era anche il cuore della sua poesia». Penna era il poeta dalla vita tormentata e irregolare, celebrato da Pasolini, viveva in miseria, batteva strade e vicoli romani, frequentava vespasiani e latrine, morbosamente attirato dall'odore della povertà («supremo fra tutto era l'odore / casto e gentile della povertà»), innamorato pazzamente di ragazzini. Bastava il sorriso o lo sguardo complice di un adolescente a far riemergere lo scrittore dal nero tunnel delle sue angosce. Quando lo ha conosciuto? «A casa di un comune amico, Niccolò Gallo. Doveva essere nel '49, a Roma. L'impressione che ne ebbi fu quella di un uomo decisamente insopportabile. Sembrava avesse della polvere addosso: era, al contempo, un uomo polveroso, grigio e profumato. Logorroico, parlava ininterrottamente. Nei confronti della sua omosessualità, lui che era vissuto sotto il fascismo e che per le sue inclinazioni era stato anche perseguitato, si comportava ambiguamente. Da una parte aveva una gran voglia di esibirla, dall'altra voleva mascherarla. Il nostro rapporto nacque così: scrissi su di lui un articolo che da molti fu giudicato una stroncatura. Io sostenevo che la sua poesia, generalmente valutata "solare", alessandrina, epigrammatica, era in realtà "malata", saturnina, concepita co- me in uno stato di opacità. Penna mi telefonò, mi disse che aveva apprezzato le mie critiche e diventammo amici». Un'altra sua grande amica, sulla cui opera ha scritto ripetutamente e di cui lei è indubbiamente il maggiore interprete, è stata la Morante. Da che cosa nasce la sua fedeltà? «Pensare che esiste una mia continuità nel rapporto con gli autori è sbagliato. I miei incontri sono spesso casuali. Io sono portato a scrivere per committenza. Per esempio Penna, fu proprio lui che mi chiese di aiutarlo a fare una selezione delle sue poesie. Analogamente i miei saggi sulla Morante sono nati da occasioni esterne». Nell'ultradecennale tragitto di Garboli, su e giù per le accidentate strade della letteratura italiana ci sono stati scontri, polemiche e anche ripensamenti. E' venuto il momento di operare una revisione sulle opere della Morante? <Jl mondo salvato dai ragazzini mi lascia un po' freddo. Ma la sua narrativa, a mio parere, non si tocca». Però vi sono stati dei critici che l'hanno accusata di fare sforzi incredibili per vedere la Morante, a tutti i costi, sotto un profilo positivo. Persino affermando che nella Storia non esiste l'elemento romanzesco, in polemica con il giudizio di quanti l'hanno trovato un polpettone larmoyant. «Io ho sostenuto ben altro: cioè che la Storia deprime il tasso romanzesco. E' vero che la Morante è debitrice al feuilleton ottocentesco, ma lo è in una maniera completamente innovativa. Nella Storia non ci sono i cattivi. La grande nube che contiene elementi malefici ò la storia stessa in cui viviamo immersi. Questa rivoluzione nella dinamica del racconto cambia le carte in tavola e mi appare come una grande invenzione tecnica». Gai-boli, il critico che non tradisce, dunque. Ma anche, come lui stesso dice, il critico per caso: fu grazie a un incontro dettato esclusivamente dalla sorte - c'era la Ginzburg che voleva pubblicare i Diari da Einaudi che Garboli rilanciò il nome di Delfini. Il narratore, la cui vita letteraria si svolgeva in sordina, conosciuto da pochissimi estimatori del surrealismo italiano degli Anni 30-40, ha potuto così essere apprezzato ed è emerso alla luce del sole. E tra gli autori non italiani che la ruota della fortuna ha fatto ca¬ dere nelle braccia del saggista c'è, oltre a Molière, anche il dimenticato Francois-René de Chateaubriand, di cui è appena uscita dietro suggerimento di Garboli la prima traduzione integrale italiana delle Memorie d'oltretomba (Einaudi). Nel novero delle attrazioni, non fatali ma fondamentali della vita di Garboli occupano un posto di rilievo i poeti che, come dice lui stesso «lo hanno trascinato per i capelli nel Novecento». Oltre a Penna e Montale vi sono anche Sbarbaro, Rebora, Ungaretti, Ceccardo e poi Fortini, Bertolucci, Luzi. E tra gli altri autori che meglio rappresentano il nostro secolo c'è anche il critico d'arte e saggista Longhi. E' la capacità di scrittura che ammira in Longhi? «Il mio interesse nasce, intanto, dalla mia passione per la pittura. Un'arte che vive in una singolare contraddizione: è una forma espressiva che, al contrario della letteratura, non ha una lingua, si può anche chiamare "muta". Longhi ha trasferito in linguaggio letterario una "non lingua". E' stato un grande traduttore». Sembra un'autodefinizione del suo lavoro critico, che si muove proprio sul piano della «traduzione». Ma essere un traduttore è un vantaggio o una privazione? C'è anche chi, a volte, persino con una certa dose di malevolenza, ha parlato di lei come di uno scrittore mancato. Che ne pensa? «Non conosco questo giudizio malevolo. Io non sono uno scrittore né mancato né riuscito. Per essere scrittori bisogna avere due doti. E' necessario un immaginario molto vasto e molto potente, che a me non manca. Ma la seconda facoltà, di cui sono privo, è la capacità di dar credito alla propria immaginazione. Bisogna sentirla come una realtà. Io, invece, ho sempre percepito il mio immaginario come una forza negativa e irreale». Tra gli amori del saggista che ha il dono di Re Mida e se «tocca» un autore questo ne emerge all'apice del suo valore - c'è anche il teatro: così a maggio, dopo gli scritti su Penna e Chateaubriand, usciranno da Rizzoli le sue critiche teatrali, raccolte con il titolo Un po' prima del piombo. Messa la parola fine a tante iniziative, sta lavorando intorno a qualche nuova idea? «A un saggio dal titolo II naso di Plutarco che nasce da un'esperienza personale. Mi sono chiesto come mai quando studio un autore vengo così fortemente invaso dalla sua presenza fisica, la psicologia non m'interessa, ma la fisicità (non mi piace adoperare l'usurata parola corpo) moltissimo. Mi ha stimolato a questo confronto Carlo Ginzburg. Mi ha telefonato per chiedermi come mai in uno scritto su sua madre io avevo considerato significativo il modo con cui lei saliva le scale. Sto scrivendo per rispondergli». Quando qualcuno vuole fare il gioco della torre con i critici accosta il suo nome a quello di Citati. E, magari, com'è capitato a Raboni, butta giù Citati e salva lei. Come si sente in questo ricorrente confronto-scontro? «E' vero, spesso ci paragonano. Le premetto che io ho grandissima stima e affetto per Citati. La nostra amicizia è un bene della mia vita. Ma le nostre strade divergono profondamente. Citati è uno scrittore che, come tutti gli scrittori, si scontra con i gusti del pubblico e può piacere più o meno. Io non sono uno scrittore, sono un uomo di studio. Le mie ambizioni sono molto più modeste. Mi considero soprattutto un editore di testi ignoti o poco noti. Abbiamo poi un approccio completamente diverso nei confronti dei libri. Il suo è più "giusto", più corretto. Il mio è più infetto, più malato. I libri e le opere mi invadono. E allora io cerco di difendermi, di resistere con tutte le mie forze. Lui, al contrario, ha una maggiore capacità di rapporto armonico, si lascia pacificamente trascinare. Io sono più sprovveduto e inerme di fronte ai libri. E poi io gestisco un'osteria di paese. Citati è un cuoco internazionale». Mirella Serri Il gran maestro della critica passa al setaccio il secolo e svela incontri, polemiche, attrazioni fatali Penna era un logorroico, scrissi un articolo che sembrava una stroncatura: mi telefonò e diventammo amici La Morante? Non si tocca, con «La Storia» ha rivoluzionato la dinamica del nostro modo di raccontare Montale, Sbarbaro, Rebora, Fortini, Luzi: sono statiipoeti a trascinarmi per i capelli Una lunga teoria discoperte, da Delfini alle «Memorie» di Chateaubriand ERVISTA LA STAIl gran maee svela incoCes Cesare Garboli; qui accanto, da sinistra Sandro Penna s Elsa Morante; sotto, Roberto Longhi e (a destra) Natalia Ginzburg

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