Gabetti & Isola, gli anti-divi

Lavorano in coppia da quarantanni: Vicenza li celebra con una mostra Lavorano in coppia da quarantanni: Vicenza li celebra con una mostra Gabetti & Isola, gli anti-divi «I nostri progetti a misura d'uomo, non di Triennale» N VICENZA ON mi piace l'architettura predicata, la smania di creare una tendenza e di fare scuola. Aimaro Isola e io non siamo graditi a quei critici e architetti che ci vorrebbero impegnati a lanciare un nuovo verbo, come non fummo graditi, o addirittura messi sotto processo, quando contestavamo fortemente il Movimento Moderno ormai esangue». Roberto Gabetti lavora in coppia con Aimaro Isola dai primi Anni 50.1 due sembrano perfettamente a loro agio in una condizione specularmente opposta a quella dell'architetto divo tanto di moda. La mostra delle loro opere, che si è aperta nella Basilica Palladiana, viene presentata come un riconoscimento tardivo di due Maestri, intesa a «sottrarre da un inautentico e inefficace isolamento due indubbie figure di protagonisti». Gabetti e Isola gradiscono, ma direi che si sentono perfettamente a loro agio nella condizione di architetti liberi da scuole e conventicole, contrari a fare di un edificio un'esperienza dottrinaria. Tra le 60 opere esposte con 360 disegni a matita e una serie di acquerelli è naturalmente compresa la citatissima «Bottega d'Erasmo» realizzata a Torino nel 1953. Un po' casa di abitazione e un po' sede di libreria antiquaria, segnò la rottura con i canoni rigidi del Movimento Moderno e con la durezza del razionalismo, proponendo forme che innescarono il dibattito internazionale sul «Neoliberty». Gli ortodossi li accusarono di tradimento e di nostalgie storiciste, gli altri li etichettarono come condottieri di una crociata per la rinascita del Liberty. «A noi, semplicemente, non era parso necessario far uscire le ossa in cemento armato dalla casa per essere moderni». Il loro cammino proseguì cercando e riprovando, rifiutando le mode come le sentenze definitive sulle sorti dell'architettura. «Una cosa ci ha sempre dato ai nervi: il discorso sulla morte dell'architettura. Si continua a progettare e a costruire, magari sotto il predominio dell'International Style in versioni diverse, e spesso si costruisce male. Tutti contenti». Ironico, distaccato, aperto al dialogo in forme cortesi, Roberto Gabetti ha la cifra personale del personaggio torinese appartenente alla grande tradizione culturale di una città cui sente di appartenere. Insieme a Aimaro Isola ha operato prevalentemente in Piemonte. La Borsa di Torino (1956), le case popolari Ina nel quartiere Vallette (I960), il complesso residenziale Olivetti a Ivrea (1966), residenze e negozi «Concaneve» al Sestriere (1974), il Palazzo dei Tribunali a Alba (1982), il Monastero delle Carmelitane a Quart (Aosta, 1984) sono tra gli esempi più noti. «L'ambito circoscritto non conduce tuttavia a una produzione di carattere regionalista» si prsmurano di sottolineare alla Mostra nella Basilica Palladiana. Domando a Roberto Gabetti se si senta provinciale perché vive e opera a Torino. Ride, mi risponde con arguzia polemica: «Non è necessario prendere casa a Parigi per sentirsi internazionali. Noi siamo legati alla cultura mitteleuropea come tutti i torinesi che hanno gli occhi aperti al di là delle Alpi e sanno captare, sanno riportare idee e esperienze». La critica di tipo accademico stenta a decifrare la totale libertà della coppia Gabetti-Isola nel progettare secondo diverse esigenze e diversi ambienti, senza mai atteggiarsi a Maestri che propongono modelli. Il complesso residenziale Olivetti a Ivrea, un semicerchio raffinato che riesce a inserirsi elegantemente nel paesaggio pur con la lunghissima faccia vetrata, ha fatto parlare di un ritorno al razionalismo. Il Monastero di Quart ha ricevuto accuse più o meno velate di vernacolismo rurale. A San Donato Milanese il Palazzo per uffici della Snam (1985-'91) è un colosso di cristallo, ed ecco l'etichetta di high tech. Sempre sorridendo Roberto Gabetti racconta: «A Ivrea dovevamo progettare con razionalità ma senza fare tante case a forma di cubetti, in contrasto con le pre-esistenze e con un paesaggio ben definito. A San Donato Milanese c'era il vuoto totale, lo spazio su cui costruire era un desolato vastissimo parcheggio che aveva bisogno di assumere una sua identità, con un segno nuovo». E il Monastero di Quart, col tetto di pietra, le facciate ancora di pietra locale, le ampie fasce bianche intorno alle finestre, il chiostro porticato? «Ci attribuirono la volontà di lanciare un manifesto. Noi avevamo semplicemente tenuto conto della tradizione costruttiva locale, del mi- croclima, dell'andamento del terreno e della morfologia dei monasteri carmelitani. Quart fu l'occasione di progettare in armonia col paesaggio, dando il senso di continuità con la natura. Diciamo pure che in quel progetto ci sentimmo settecenteschi. Il restauro di Stupinigi, anni di lavoro, ci ha riproposto con forza la lezione di Juvarra nel suo rapporto con l'ambiente naturale». Famosi architetti contemporanei hanno fatto naufragio nelle periferie, progettando megastrutture mal vissute dagli abitanti. Gabetti e Isola hanno nel loro passato le case popolari delle Vallette. Quale diversità? «La gente ci vive bene, i giardinetti al piano terra sono molto goduti. Nel progettare quelle case ci eravamo posti anzitutto il problema di far vivere bene i futuri abitanti, in armonia con la campagna». Riaffiora il tema della libertà di invenzione che caratterizza i due architetti e li fa così diversi da quelli obbligati a seguire un codice personale, a esprimersi con giochi metalinguistici, a usare l'ironia o la violenza nei confronti del passato per non apparire regressivi. Arriviamo così al sempre acceso dibattito sul tema antico e nuovo nei centri storici. «Non si possono imporre regole universali. Si deve progettare caso per caso, anche ricorrendo a compromessi dove è necessario. Nel centro storico di Torino abbiamo fatto qualche intervento limitato, cercando di dare luce alle vecchie case, di renderle più abitabili. A Parma avevamo progettato un teatro, ma era un tema troppo difficile». Parliamo delle polemiche sulla ricostruzione della Fenice e Roberto Gabetti non ha dubbi: «Si ricostruisce come era. A volte la simulazione dell'antico è indispensabile, unica scelta possibile. A Stupinigi la cupola minacciava di crollare: l'intervento di restauro è stato fatto con delicatezza, non ci si accorge che sia avvenuto». Negli anni dell'architettura gridata e nevrotica, pensata più per le Triennali che per gli uomini, la coppia torinese custodisce una saggia indipendenza. Potrebbe riassumersi nel motto «cortesemente vivere e lasciar vivere». Mario Fazio «Teniamo conto delle tradizioni costruttive locali e dei paesaggi, non ci piace lanciare manifesti o fare i predicatori» Roberto Gabetti e Aimaro Isola, torinesi mitteleuropei: «Non è necessario prendere casa a Parigi per sentirsi internazionali»