In bus, seduti accanto alla paura

In bus, seduti accanto alla paura L'ANGOSCIA VIAGGIA SULLA LINEA 5 In bus, seduti accanto alla paura Volti sbarrati, vie deserte: i giorni del panico LTEL AVIV E città sono semivuote in Israele. La paura sta diventando un problema tecnico oltre che uno stato d'animo. Che cosa fare? Tenere i bambini chiusi in casa? Non lasciare che la nonna vada al mercato? Come raggiungere la scuola? E l'ufficio? Andare al ristorante o non andarci? Parlare o tacere, con i bambini, su quello che sta accadendo? Piangere, o mostrare il viso di tutti i giorni? Favorire il desiderio di restare rintanati, o forzarlo, romperlo, uscire di casa? E come fare i conti con l'immagine di se stessi che si modifica, che passa dall'israeliano intrepido, imprevedibile, vincente, a quello di un individuo cacciato fin dentro il cuore di Tel Aviv, la città più aliena ai simboli delle lotte ideologiche, la più disincantata e moderna? La prima legge di questi giorni è evitare gli autobus. Essi infatti si aggirano per le metropoli semideserti; il numero 5, quello dell'attentato di qualche mese fa che passa per Rehov Dizengoff di fronte al centro commerciale appena esploso, all'ora di punta non portava che alcuni eroici passeggeri, e qualche giornalista. Salire, restare in piedi vicino al guidatore per due fermate è come percorrere un chilometro in compagnia della morte. Guardi la faccia della tua vicina, una russa di mezza età con un'enorme borsa sulle ginocchia, e la vedi già insanguinata o a brandelli. Guardi un ragazzo che ride, e lo vedi ghiacciato per sempre in quella risata. Gli autisti, sia a Gerusalemme che a Tel Aviv, ti raccontano subito che sull'autobus appena scoppiato avrebbero potuto esserci loro, che solo per caso sono stati destinati a quell'ora e in quel giorno, su un altro numero. Chi può prende l'automobile. E in Israele ci sono molti poveri, molti immigrati recenti, russi o etiopi che la macchina non ce l'hanno. Comunque, anche chi viaggia in macchina cerca di tenersi molto scostato dagli autobus. I bambini, e anche i ragazzi grandi, ormai vengono accompagnati dappertutto. I taxi sono introvabili. Sono tutti presi. Nessuno commenta la propria paura: i genitori accompagnano i bambini, si incontrano davanti alle scuole, alle palestre, ai giar- dini pubblici, e si guardano negli occhi e tutt'al più, basiti, si dicono: «Non ho parole». Questa sembra la frase preferita in questi giorni. A Gerusalemme si vede in giro molta polizia, a due a due anche i soldati pattugliano le fermate degli autobus. Ma l'escalation, che ormai mette a rischio tutti i luoghi pubblici, richiederebbe una quantità di personale che tutta l'esperienza di questi armi non è riuscita tuttavia a fornire. Sulle porte dei supermercati, dei teatri, dei cinema, dei grandi magazzini, dei centri commerciali come i Dizengoff Center, che orinai in Israele sono moltissimi, un guardiano fruga le borse di chi entra con poca convinzione. Si sa che lui uomo bomba deciso a morire non può essere comunque fermato. La psiche dei bambini è la grande preoccupazione di queste ore. Centri psicologici funzionano ovunque, al numero 106 risponde un pronto inteivento psichiatrico a chiunque chieda aiuto. Fra quelli che telefonano ci sono moltissimi nuovi immigrati, sconcertati dalla situazione che hanno trovato nel Paese. La radio e la tv funzionano da valvole di sfogo della paura, la gente telefona in continuazione, e moltissime sono le voci infantili che raccontano la loro esperienza: ero là vicino; una mia compagna di scuola non tornerà mai più; ero per mano con la mamma quando lo spostamento d'aria ci ha treschiate lontane, lei non mi vedeva e chiamava il mio nome, io la vedevo ma non riuscivo a parlare, a farle sentire che stavo bene; non riesco più a uscire di casa; sono vecchio, ne. posso guidare l'automobile, come muovermi dalla mia abitazione? Gli psicologi consigliano di «non nascondere la tensione sotto il tappeto»: anche questa è un'espressione che si sente spesso ripetere. I ragazzi più grandi si riuniscono nelle case dei compagni di scuola per parlare dell'accaduto. Le famiglie telefonano loro continuamente, vogliono sapere dove sono, a che ora torneranno. Una situazione assai strana ùi una società libertaria e rispettosa della libertà dei bambini come Israele. Le famiglie cercano anche di ripetere tutto quello che lo psicologo consiglia : può capitare, è vero, ma non è affatto detto che capiterà proprio a noi. E ancora: Israele è forte, ha tutta la possibilità di battere il nemico, non ò forse vero che ha già vinto tante guerre impossibili nel passato? In questo clima è diventato difficile ragionare di pace, riaffermarne la bontà. Tanti genitori pacifisti vorrebbero che i loro figli non perdessero d'occhio il sogno di Rabbi e di Peres, non odiassero i palestinesi, ma i bambini che sono sempre molto concreti, chiedono come si fa a sentirsi sicuri di nuovo se non si batte il nemico, se non si riesce a punirlo. Alcuni adulti combattono con dei pregiudizi che non hanno mai avvertito dentro di sé: «Se vedo sabre un arabo su un autobus, io scendo, e me ne vergogno. Non ho mai sentito differenza tra me e un arabo, ed è la prima volta che faccio i conti con questo sentimento». I pohtici e gli intellettuali seguitano a fare coraggio alla popolazione cercando di restituire a Israele il senso di identità che la paura gli ha tolto, invitandolo a ripopolare le città, ad andare avanti nella normalità. Ma lo shock non è solo quello dovuto al pericolo. E' un vero e proprio shock antropologico. Israele è passato in pochi giorni dal rassicurare se stesso forte e capace di autodifesa a una situazione completamente nuova, in cui prevale il senso di confusione inerme. Ognuno, in fondo, aspetta da parte di Shimon Peres quel colpo di reni che l'ha salvato anche nelle guerre impossibili. Fiamma Nirenstein Un soldato lega i polsi a un prigioniero tili che raccontano la loro esperienza: ero là vicino; una mia compagna di scuola non tornerà mai più; ero per mano con la mamma quando lo spostamento d'aria ci ha treschiate lontane, lei non mi vedeva e chiamava il mio nome, io la vedevo ma non riuscivo a parlare, a farle sentire che stavo bene; non riesco più a

Persone citate: Fiamma Nirenstein, Peres, Shimon Peres