Rivive la leggenda di Ferrara

19 A Palazzo dei Diamanti, le quadrerie storiche perdute e ritrovate Rivive la leggenda di Ferrara Una città scrigno, nel segno di Longhi FFERRARA 1RA XV e XVI secolo, fra il Lionello d'Este di Pisanello, Rogier van der ——iWeyden e Mantegna, il Borso di Tura, Cessa e De Roberti e l'Alfonso I di Dosso e Battista Dossi, Ferrara fu uno scrigno d'arte fra i più rari e preziosi, con le sue architetture severamente cubiche ma addolcite dal rosso mattone incorniciato e trinato di pietra bianca e gli smalti da pietre dure e le stregonerie tizianesche dei suoi pittori. Poi, fra il 1597 e il 1598, con la morte di Alfonso II e la cacciata da Ferrara a Modena del cugino don Cesare, lo scrigno fu forzato e saccheggiato da un potere pontificio romano altrettanto avido di terre quanto di tesori d'arte. Come ricorda Andrea Emiliani nel catalogo Nuova Alfa della mostra La leggenda del collezionismo. Le quadrerie storiche ferraresi nella Pinacoteca Nazionale nel Palazzo dei Diamanti, fino al 26 maggio, «Clemente Vili Aldobrandino avendo accanto il nipote cardinal Cesare e altri famosi protagonisti, quale Scipione Borghese e Maffeo Barberini - il futuro Urbano Vili - si impadronì della città e del patrimonio rinascimentale della città». Dei tesori del castello, don Cesare d'Este riuscì a stento a salvare a Modena i «quadri di pittura a mandorla» sul soffitto della camera da letto di Alfonso I: le cinque tavole romboidali della Galleria Estense di Modena, magicamente immerse in ombre colorate tizianesche e in enigmi allegorici di Dosso e Battista Dossi (i É sensi? la parabola della vita fisica e spirituale dell'uomo?) costituiscono in mostra una delle «tappe forti», abbinate alla scena allegorica di rissa e di spavento, finita nelle mani di Scipione Borghese e, dopo tragitti ottocenteschi inglesi, nella collezione veneziana del ferrarese Vittorio Cini. Fra le sei collezioni presentate, la Cini è protagonista ed esemplare nel suo raffinato e «mirato» legame con l'età d'oro della città d'origine del collezionista, della fase più recente, longhiana, della riscoperta del- la stagione artistica ferrarese, dopo secoli di oblio. Questo era stato rotto solo dalla «pietas» patria dei collezionisti ottocenteschi, Giambattista Costabili Containi, Massimiliano Sacrati Strozzi, Enea Vendeghini e, alla fine dell'800, dagli studi di Adolfo Venturi, che, direttore e riordinatore della Galleria di Modena, vi aveva ritrovato i lacerti di quella stagione. Cini è esemplare in più sensi: la ricostruzione longhiana del polittico Griffoni di Cossa e De Roberti in San Petronio, smembrato al principio del '700, risplende nelle tre tavolette di Santi del Roberti, ai quali si abbina il 5. Petronio, pervenuto in dono vent'anni fa alla Pinacoteca di Ferrara per altra via, la collezione ottocentesca di Andrea Vendeghini. Emergono in mostra queste vie complesse e affascinanti della storia del collezionismo ferrarese. Un altro gioiello della Cini, il San Giorgio del Tura, e uno dei tre Santi del Roberti, sono passati nell'800 nella grande collezione Costabili, alla quale apparteneva anche un altro vertice della mostra, il Sant'Antonio da Padova del Tura (già ritenuto San Giacomo della Marca in quanto fino alla fine del '700 nell'omonima cappella in San Niccolò a Ferrara), oggi nella Galleria Estense di Modena. Domina il grande santo, carni e saio parimenti martellati come in pietra o metallo policromi, debordando su un'arcata dagli incredibili colori verde onice, oro e rosa, dietro a cui la natura metafisica è avvolta da un blu cosmico degradante in un'indicibile alba oro e arancio, che ricomparirà solo di là dalle Alpi con Altdorfer o Griinewald. Giambattista Costabili riteneva anche di possedere nei due Santi da Santo Spirito in Ferrara, con le teste campite in due finte conchiglie marmoree profondamente intagliate nei fondi oro, oggi nella Pinacoteca di Ferrara, due opere del Cossa. Gli studi contemporanei hanno individuato la mano dell'ungherese Michele Pannonio, attivo in quello stesso Studiolo di Belfiore da cui provengono le due Muse di collaboratori del Tui-a, entrato nella Pinacoteca di Ferrara due anni fa con la cessione allo Stato per successione di opere dell'altra grande collezione ottocentesca, di Massimiliano Sacrati Strozzi. E' una grande trama che avvolge collezionismo ottocentesco anche illuso - un aspetto mai tramontato - e studi moderni, per cui i due frammenti di dossale che nella collazione Massari del tardo '800 erano dati a Giotto sono degradati ma tornati in patria come opera di «Maestro della Pietà Massari», raro prezioso ferrarese di cultura internazionale del primo '400. Si confrontano da una collezione all'altra, dove nell'800 recavano i nomi maggiori da Tura a Cossa, maestri minori ma ben intessuti nella trama ferrarese riletta dal Longhi: il puntuto «Maestro dagli occhi ammiccanti» attivo a Schifanoia, lo scattante dorato «Vicino da Ferrara» contiguo ad Ercole Roberti ma conscio anche del Mantegna e dei fiamminghi. Capolavori «ospiti», non ferraresi: Gentile da Fabriano, Giovanni e Jacopo Bellini, Mantegna dalla collezione Vendeghini Baldi alla Pinacoteca di Ferrara; ivi anche, dalla Sacrati Strozzi, la stupenda predella della Vita della Vergine di Amico Aspcrtini da S. Maria Maddalena di Galliera a Bologna, stazioni di una sacra rappresentazione che preannunciano Lorenzo Lotto. Marco Rosei Capolavori del '400 e '500 raccolti in sei straordinarie collezioni tra cui quella di Vittorio Cini Come riebbero «patria» quei tesori dei principi saccheggiati dai pontefici romani É Giorgio», to cole rti «Scena orica» osso Dossi Coq «San Giorgio», dipinto di Ercole Roberti Una «Scena allegorica» di Dosso Dossi