In processione al maso del mostro

In processione al maso del mostro Famiglie di italiani e tedeschi frugano nel fienile di Gamper a caccia di cimeli e foto ricordo In processione al maso del mostro Merano presa d'assalto dai turisti dell'orrore MERANO DAL NOSTRO INVIATO Sulla stradina non si può più passare. Bisogna lasciare le macchine infilandole nelle vigne, come hanno fatto tutti quelli che sono appena arrivati. Il cartello è piccolo: Eintritt Verboten. Ma cosa importa, la gente passa e non lo guarda. Anche quel cartello appartiene allo scenario dell'orrore, a quest'affresco un po' dolente e un po' terribile che abbiamo davanti agli occhi. Il fienile dov'è morto Ferdinand Gamper ò quello scheletro di mura annerite, che il papà indica al figlioletto venendo giù per la strada. Oggi è domenica, il giorno della preghiera e del riposo. Però ci sono le famiglie, in questo posto di morte e di follia. Forse, non c'è niente da capire. L'ultima volta che è passata la morte in questa conca di Rifiano era solo due giorni la. Ma la paura non se n'è mai andata via, e dev'essere per questo che la gente viene in processione dal mattino, quando Anne Marie Melchiori apre le ante delle finestre per ritrovare la luce del giorno. Dev'essere per rivederla, per sentirla. Per conoscerla. Passano sui campi con le macchine fotografiche e le piccole cineprese, portano i bimbi in carrozzella oltre i nastri che delimitano il passaggio, strillano ai cani che corrono latrando nel giardino, bivaccano accanto ai segni del gesso che ricordano il corpo di Tullio Melchiori steso sul pontile con un colpo in testa. Dimenticano le briciole sulle macchie di sangue, scherzano con gli amici. L'orrore è diventato un film da rivedere, uno spettacolo da ricordare. E da riprodurre, purtroppo. Non è orrore anche tutto questo, l'assalto dei turisti, la paura come cimelio e il cupo pellegrinaggio? Non è orrore la festa delle famiglie in un luogo di morte? E adesso, giù, dove le ombre hanno già scacciato il sole, saranno in duecento che vanno ancora a frugare nel fienile, che calpestano la terra e le cose, raccoglie ndo un pezzo di giornale bruciacchiato, la Gazzetta dello sport e la Bild, una pagina del calendario, una sbarra di ferro. Italiani e tedeschi, che vengono e guardano. «Anche i tedeschi», come sbotta Giovanni Melchiori, il fratello di Tullio, l'ultima vittima della follia di Ferdinand. «E vengono pure a guardare». Tornare qui è come tornare sull'abisso, nella casa schiacciata contro il monte dov'è finita la storia crudele di Ferdinand Gamper. La terra ha color seppia, il colore della memoria e della tristezza. Non c'è luce, e fa freddo. Fra le vigne e i campi, tutto questo sa di solitudine e di paura. Ma la paura bisogna imparare a conoscerla. Come dice Guido Prantil, che è arrivato da Priò, Val di Non: «Io sono venuto qui anche per questo». La paura che racconta don Ettore, nella Messa di Santo Spirito, quando sono le 9,30: «Anch'io uscivo di casa con il patema d'animo. Quant'è terribile avere della violenza, quant'è brutta la paura. Era duro non poter camminare, non poter andar fuori per vedere qualcuno, stare tappati in casa. E' stato allora che mi sono venuti in mente i bambini della Bosnia e i loro quattro anni di guerra, e anche là c'era un cecchino che tirava a un uomo che non sapeva. Noi abbiamo avuto 20 giorni di Bosnia. Loro, quattro anni». La stessa paura che gela don Albert Schunthaler, nella Messa del Duomo, in lingua tedesca, a due passi da dove Ferdinand raggiunse una delle sue vittime con un colpo alla testa: «Ouante volte in questi giorni ci siamo chiesti perché succedono fatti come le guerre e come Merano? E quante volte allora ci siamo chiesti dov'è il Signore di tutte le cose?». Ma adesso, quello che colpisce è la bestialità della paura. Al mattino, le macchine con gli sci sul tettuccio, che passano e si fermano. Scendono ragazzi in tuta, guardano, fotografano, e ripartono. Quando la Messa è finita, arriva qualche fedele, in piccolo corteo. E poi, nella luce del mezzogiorno, comincia la processione. Giovanni Melchiori, fratello di Tullio che il folle ha steso là sotto, vicino al ripostiglio, guarda e non s'arrabbia: «Non mi danno fastidio, questi turisti. Sono incuriositi perché nessuno s'è accorto che c'era un pazzo qua in giro». In fondo, questo per lui è il vero problema, perché è meglio vederle, le cose, meglio conoscerle. «Per 4 anni, come si fa ad avere uno cosi che ti abita di fronte e non guardarlo mai in faccia? Come si fa a non capire?». Eppure, è stato cosi possibile, dice, che quella mattina, quando sentì lo sparo, Anne Marie, la moglie di Tullio, scese di corsa verso il campo e incrociò Ferdinand che teneva qualcosa in mano avvolto in uno straccio macchiato di sangue. E gli chiese, senza capire: «l-'erdi, cos'è successo, Ferdi?». Lui rispose con un mugugno, «boh», e andò di corsa verso il fienile tagliando i campi. Anne Marie scese sotto e trovò il corpo di Tullio dopo il ponticello, e allora urlò con quanto fiato aveva in gola: «Aiuto, Ferdi! Vieni, vieni, hanno ucciso mio marito!». Fino all'ultimo non ha capito. Forse è vero, forse ha ragione Giovanni Melchiori, «la paura può aiutare a capire». Giovanni ora sta in piedi vicino alla conigliera: «Quando hu sentito questo racconto, mi sono venuti i brividi. Mamma mia cos'hai rischiato, le ho detto. Ma scusa, perché non ha ucciso pure te? E lei mi ha risposto: perché io sono tedesca». Che sia vero o no, adesso non importa. Adesso che siamo qui, davanti ad altri percorsi della follia, o dell'ignoranza. Il signor Kunde che viene da Innsbruck, ripete che è «pazzesco, tutto così incredibile». Chiede dove sono morti «gli italiani». Là, dopo il ponte. C'è la sagoma di gesso per terra. Ci sono le macchie di sangue dove c'era la testa. Lui va là con il figlio. E lo fotografa, oltre le bande bianche e rosse. Ci sono italiani che ci fanno addirittura lo spuntino sopra, mentre si scandalizzano come questa signora in pelliccia: «Ma che terribile, che orrore! Hai visto Gino?». Cani che corrono. Uno che lecca il sangue sulla sponda del ponticello. Ci sono gli amici di Melchiori, come Renato Tomanin, che non erano mai venuti a trovarlo quando lui era vivo, ma che sono venuti qui adesso che non c'è più. «Tullio era semplice come un bambino», dicono. Semplice come questa casa. Come la sua vita, dicono In questa conca senza sole, con la terra color seppia come in una vecchia fotografia. «Meritava una vita migliore», sospira Guido Prantil. Guarda i cani, la gente che risale la strada, le macchine che fanno ressa nelle vigne per uscire. Fa buio adesso. Pierangelo Sapegno Il fratello dell'ultima vittima del serial killer: «Sembra che nessuno si renda ancora conto che qui abitava un autentico pazzo» USE- ^ ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ I Il «maso» del serial killer. Nell'altra foto, il procuratore di Bolzano, Mario Martin (a sinistra) col sostituto procuratore Cuno Tarfusser

Luoghi citati: Bolzano, Bosnia, Innsbruck, Merano, Rifiano